LA RELIGIONE STELLARE EGIZIA

NELLA RELIGIONE STELLARE DEGLI EGIZIANI
GEOCENTRISMO E ANTROPOCENTRISMO

di Qui Artem Discit

Che il rapporto tra gli egiziani e la volta celeste abbia avuto, come per altri popoli, carattere mitico-sacrale è noto, oltre che ovvio; scopo del presente contributo, quindi, non è quello di offrire al lettore una ulteriore prova di ciò, quanto, piuttosto, quello di proporre alcuni esempi che vadano oltre quelli forse più noti di Orione e Sothis, tentando di recuperare una chiave di lettura che possa ancor oggi essere utilizzata iniziaticamente. Anticipando la conclusione, possiamo dire che in realtà la terra dei Faraoni non conobbe l’astrologia che molto tardi rispetto a ciò che, invece, potremmo chiamare Astro-Mito-Loghia, cioè un discorso mitico espresso attraverso l’osservazione degli astri, teso alla divinazione1 dell’intero Egitto2; si riscoprirà in tal senso una visione che, piuttosto che presupporre una quiddità specifica nelle stelle, inserisce queste ultime in una prospettiva geocentrica in cui acquistano l’importante funzione di grande “orologio” cosmico e liturgico.
Senza dilungarmi ulteriormente in queste considerazioni generali, vorrei immediatamente proporre l’analisi di un rito estremamente interessante ai nostri fini e la cui antichità ci è attestata da iscrizioni risalenti alla IV dinastia. Faccio riferimento a quel complesso di cerimonie che si svolgevano in occasione della fondazione di un nuovo tempio e probabilmente delle stesse piramidi. Il rito durava alcuni giorni e prevedeva ben dieci fasi di lavoro rituale ad ognuna delle quali, almeno teoricamente, doveva partecipare il faraone, unica autorità in grado di stabilire efficacemente e legittimamente, in quanto divinità incarnata, quel collegamento tra cielo e terra necessario affinché il rituale potesse avere buon esito. La cerimonia, dunque, si apriva con la partenza del faraone e del suo seguito verso il luogo in cui sarebbe dovuto sorgere il nuovo edificio. Lì, un sacerdote, vestito con la maschera della divinità a cui il Tempio sarebbe stato dedicato, accoglieva il suo sovrano dando così avvio alle pratiche liturgiche. Il momento più importante della cerimonia era la fase del “pedj shes” cioè del tiro della corda. Si trattava del momento più delicato del rituale di fondazione dell’edificio e consisteva di due parti distinte svolte durante la notte ed il giorno seguente. Nella notte stessa dell’inizio della cerimonia, il faraone tendeva una corda insieme ad una sacerdotessa incarnante per l’occasione la dea Seshat e attraverso uno strumento chiamato “merkhat”, utilizzato come mira, fissava l’asse nord-sud prendendo come punto di riferimento l’Orsa Maggiore. Si legge in una iscrizione del tempio di Edfu: Io tengo il piolo. Afferro il manico del bastone e prendo la misura con Seshat. Io rivolgo i miei occhi ai movimenti delle stelle. Io volgo il mio sguardo verso l’Orsa Maggiore. Io fisso i quattro angoli del tuo Tempio3.

 

Il nord astronomico coincideva, intorno al 3000 a. C. con a-draconis, una stella poco visibile della costellazione del Drago allora chiamata “Schiena del coccodrillo”. Gli egiziani, traevano l’esatta collocazione del nord astronomico osservando il sovrapporsi, in determinati momenti della notte, di più costellazioni: l’Orsa maggiore, chiamata (almeno per una certa parte) “Coscia del Bue” e rappresentante Seth, l’Orsa minore e la costellazione del Drago.
Da una iscrizione del tempio di Luxor si apprende, inoltre, che durante il regno di Ramsess II era prescritta come data di inizio del rito del tiro della corda quella del novilunio. Una volta avere individuato l’asse nord-sud, il faraone, coadiuvato dalla dea Seshat, fissava i quattro angoli del futuro edificio. La seconda parte di questa fase della cerimonia si concludeva il giorno dopo con quella che gli studiosi hanno definito “abbandono della corda”. La dea Seshat ed il faraone lasciavano la corda stesa sul terreno quasi fosse una riga lungo la quale doveva essere tracciato il primo solco. Le fasi ulteriori del rito non sono rilevanti ai fini del presente contributo; tra esse abbiamo, la realizzazione del primo mattone, il ba ta, cioè la costruzione e la consacrazione del perimetro, e la deposizione ai quattro angoli di cartigli propiziatori, secondo la tradizione di oro, sebbene ne siano stati trovati solo di legno, dedicati alla divinità per la quale era innalzato il tempio. Interrompiamo qui questa rapida descrizione della cerimonia di fondazione del tempio, che meriterebbe certamente uno studio più esteso, per ritornare ai nostri propositi iniziali. Da quanto abbiamo detto, emerge chiaramente l’importanza che anche da un punto di vista architettonico avesse l’asse nord-sud. Ciò che ci importa, in questa sede, non è proporre un ennesimo lavoro a sostegno delle tesi sulle linee di forza orgonomiche o del magnetismo terrestre. Piuttosto, vogliamo vedere se nei testi egiziani sono presenti testimonianze esplicite dell’importanza rivestita dal Nord che possano offrire chiavi di lettura ulteriori. D’altra parte, tale preminenza non è precipua del popolo egiziano e certamente di grande interesse potrebbe essere uno studio comparato del tema nelle diverse tradizioni; un accenno a tale tematica, seppur velato, credo sia ravvisabile in un articolo di Claudio Arrigoni pubblicato nel primo numero di ELIXIR4.
Procedendo, ritengo essenziale analizzare il tema a partire dai testi delle piramidi, analisi per la quale mi avvarrò dello studio di Faulkner, traduttore in lingua inglese delle iscrizioni in esame, intitolato The King and the Star-Religion in Pyramid Texts5. L’identificazione del Faraone con le stelle è un aspetto assai noto a tutti coloro i quali hanno letto Il Mistero di Orione6; gli autori, a partire dalla identificazione Osiride-Orione e Iside-Sothis, danno un’interpretazione assai interessante della camera del re e della camera della regina e dei rispettivi condotti d’aria. Nei testi delle piramidi si attesta: Al faraone è dato un gran diritto come il Grande di Potere da Orione, il padre degli dei. Il faraone è giunto affinché possa glorificare Orione. Il tuo nome è Abitante di Orione, con la tua stagione nel cielo e la tua stagione sulla terra. La nascita di Orione sarà impedita se tu (il dio del sole) impedirai al faraone di venire nel luogo ove tu sei; la nascita di Sothis sarà impedita se impedirai al faraone di venire nel luogo ove tu sei7. Il faraone deriva i suoi poteri da Orione, ma al tempo stesso diventa più forte ed importante di lui. L’ultimo periodo, infatti, si riferisce alle  funzioni sacerdotali che il sovrano svolgeva durante il capodanno egiziano in cui si completavano un insieme di cerimonie che, a partire dalla ricomparsa di Orione in cielo e da quella di Sothis dopo settanta giorni di occultamento, avrebbero portato alla nascita di Horus e quindi alla rinascita dell’Egitto. Se il faraone non si fosse ricongiunto con il Sole, se cioè non avesse riacquistato la sua dignità divina, oltre che regale tra gli dei celesti, il ciclo vitale dell’Egitto stesso ne sarebbe risultato compromesso. Il Re, pertanto, abbandonando definitivamente il veicolo fisico, diviene una stella, Il re è quella stella che illumina il cielo. Meno trattato, anche se a mio avviso più rilevante, è il ruolo delle stelle circumpolari all’interno dei testi delle piramidi: È il Grande Uno nel Nord del cielo che prepara il fuoco per lui. Il faraone diventa tutt’uno con le stelle circumpolari. Il faraone non morirà di nessuna morte, poiché il faraone è una stella circumpolare8. Nonostante il faraone venga identificato con Orione ed Osiride, quando nei testi delle piramidi si fa riferimento all’immortalità, alla stabilità e alla massima dignità conseguibile quale sovrano del cielo, è alle stelle circumpolari quelle a cui viene associato. D’altra parte Sothis e Orione non furono mai, né lo sono oggi, stelle che segnano il Nord. L’importanza data alle stelle circumpolari, quali l’Orsa Maggiore e la costellazione del Drago si evince meglio dal passo seguente: Il faraone si imbarca come Ra sulle rive del sinuoso corso d’Acqua, il faraone è trasportato dalle “stelle infaticabili” e governa le stelle circumpolari9. In questo contesto con l’espressione “stelle infaticabili” si intende quelle non circumpolari, infaticabili perché incessantemente si levano e tramontano. Le stelle circumpolari, invece, non tramontano e non sorgono, eternamente presenti vivono della luce che esse stesse emanano e che nutrirà lo stesso faraone nell’istante in cui il suo Akh, il suo spirito divino la cui “dimora” è il cielo, per l’appunto, libero dal corpo, la cui sede non può che essere la terra, raggiunge il luogo che gli compete. L’Akh, d’altra parte, nella cultura egiziana del III millennio a.C., non ancora alterata dal processo di democratizzazione che avrebbe poi esteso i riti funerari, come pure l’immortalità, anche ad altri uomini, rappresenta una entità stabile ed incorrotta, principio divino che non necessita di purificazione alcuna bensì solo di nutrimento. Il Ka ed il Ba, al contrario, non sono principi divini, ma realtà mediane, potremmo dire demoniche, soggette a contaminazioni e quindi bisognose di purificazione, oltre che di nutrimento. È interessante confrontare i differenti nutrimenti dati all’Akh da un  lato e al Ba ed al Ka dall’altro. Come attesta il Papiro di Ani, a questi ultimi venivano offerti “grano bianco e birra rossa”, cibi molto più vicini ai quotidiani nutrimenti del corpo ed in grossa parte legati al lavoro del contadino. Inoltre la sacralità di questi cibi è acquisita solo nell’istante in cui diventano offerta sepolcrale. Il “nutrimento” dell’Akh consiste invece nella pura acqua del Nilo, quest’ultimo simbolo del Nun primigenio, in seno al quale tutte le divinità sono nate, e della luce stellare. Bere l’acqua del sacro Nilo equivaleva a nutrirsi di Nun. 
Più rilevante è però l’esigenza da parte del Ka e del Ba di purificazione rispetto all’Akh, la “brillante”. Se da un lato le stelle circumpolari rappresentano l’eternità, l’inalterabilità e l’incorruttibilità, dall’altro le stelle e le costellazioni come Sothis e Orione, il Sole o Venere, simboleggiano, nei loro cicli di levata e tramonto, di nascita e morte, quella continua opera di palingenesi la cui conditio sine qua non è appunto il momento catartico della morte. Ritengo lecita, quindi, l’ipotesi che nell’immaginario egiziano le diverse stelle a cui il faraone è accostato siano anche simbolo dei suoi diversi corpi sottili e pertanto delle loro diverse funzioni.
Prima di proseguire, non posso non sottolineare l’importanza di quanto detto in precedenza intorno alla differenza sostanziale esistente tra Akh, da un lato, e Ba e Ka, dall’altro. Come abbiamo già avuto modo di mostrare nell’articolo sulla Magia Avatarica10 ogni operazione teurgica investe essenzialmente il corpo lunare, plastico, del teurgo, cioè l’ochema-pneuma, in definitiva il suo potere ed intelletto “immaginativi”. L’Akh è quella condizione divina che è presupposta nel faraone, ma che manifesta solo la sua dignità regale tra gli dei ed al tempo stesso giustifica la sua funzione sacerdotale, o meglio, pontificale tra l’Egitto e il mondo soprasensibile. In realtà, come vedremo in seguito, le operazioni teurgiche tese al rinvigorimento, alla palingenesi, alla conoscenza dei mondi ulteriori erano totalmente connesse al Ba ed al Ka del faraone; non a caso quest’ultimo veniva considerato il “Ba di Horus”11. Come poi si possa giungere alla divinità dell’Akh rimane un mistero, ma l’indicazione data dalla cultura egizia è precisa: fintanto che siamo legati al nostro involucro materiale la nostra possibilità di “Conoscenza” è legata alla capacità di emancipare ed esteriorizzare il nostro Ba, cioè il nostro corpo lunare; quando saremo privi del nostro corpo, in una condizione che conosceremo (si spera!) a tempo debito, senza prescindere dal percorso evolutivo effettivamente compiuto, allora, forse, sperimenteremo la dimensione divina degli Akhu. Non bisogna mai dimenticarsi l’insegnamento dei maestri pitagorici e di Platone, pena la presunzione delirante di divenire dei in terra: soma è sema, il corpo è prigione dell’anima.
Un ulteriore elemento a conferma dell’importanza rivestita dalle stelle circumpolari ci è offerto sicuramente da alcuni passaggi dei rituali funerari, soprattutto dal rito dell’apertura della bocca. Innanzitutto è indicativa la posizione in cui è posto il defunto. Egli è posizionato sul vertice di un cumulo di terra che simboleggia la collina primordiale che, secondo i testi delle piramidi, si erse in seno a Nun il giorno in cui Atum venne all’esistenza generando la prima coppia di dei. Il defunto viene poi posizionato secondo l’asse nord-sud, con la testa rivolta verso la sede delle stelle circumpolari, posizione questa che manterrà per tutta la durata del rito a manifestazione del fatto che egli fa parte della schiera degli Akhu. L’aspetto più sintomatico, però, sembra essere l’utilizzo della “coscia di bue”, come strumento per officiare l’apertura della bocca.
Su tale questione, alcuni accenni sono presenti nell’interessante articolo di Stefano Mayorca pubblicate sul secondo numero di ELIXIR12, certamente uno degli spunti dai quali si sono mosse le presenti riflessioni, con riferimento particolare all’utilizzo, durante la cerimonia di imbalsamazione, proprio della “coscia di bue”. Su questo punto, in verità, dissento dalla interpretazione data nel citato articolo in cui si affermava: Particolarmente interessante, anche se non del tutto comprensibile, l’ausilio di una parte organica prelevata da un animale dopo il sacrificio. Si trattava di una delle zampe anteriori di una vacca o un toro, che dopo essere stata amputata veniva accostata alla bocca del defunto ancora vibrante di vita, con lo scopo forse, di trasferire nella mummia l’anelito vitale ancora presente, donandogli la vita nella sfera sottile13. Sebbene nella tradizione esoterica occidentale e in genere sciamanica non manchino esempi di pratiche analogiche di questo tipo, certamente il gesto compiuto nel rituale funerario egiziano merita un’altra interpretazione. Si afferma, infatti, nei testi funerari ed in particolare nella fase del rituale dell’apertura della bocca, mentre si toccano gli occhi del defunto con la zampa dell’animale:
O (N)! io sono venuto a cercarti! Io sono Horus ed io ho riaperto la tua bocca! Io sono il figlio beneamato ed ho aperto per te la tua bocca! Colui che si accosta a sua madre quando ella piange, colui che si unisce alla sua compagna! La tua bocca è in buono stato dopo che io la ho riattaccato per te alle tue ossa! Per 4 volte. O  (N)! io ho aperto per te la tua bocca con la coscia di colui che ha mutilato l’Occhio di Horus!14
È evidente che in questo passo si fa riferimento a Seth, ma ancor più lo è il fatto che non si fa menzione alcuna alla sua immagine di “dio sciacallo”, bensì a quella stellare di “coscia di bue”, cioè di Orsa Maggiore e quindi di divinità eternamente presente tra le stelle circumpolari. Più avanti, nello stesso testo, leggiamo: Io sono Thot, il pacificatore di Horus e Seth15. La contesa tra Seth e Horus non è infatti da intendersi come lotta tra il bene e il male in cui quest’ultimo possa essere sconfitto secondo una visione escatologica “malicida”. Essi sono due archetipi la cui lotta, indipendentemente da chi sia il presunto colpevole o il vincitore, non può che finire con la pacificazione dei due principi rappresentanti la vitalità terrestre e lo slancio aereo dell’occhio dell’intelletto. Non voglio certo tediare con l’analisi di una simbologia che altri hanno meglio di me compreso e presentato, analisi che risulterebbe persino arbitraria. In tal senso mi preme mettere in luce un dato di estremo interesse. Horus è identificato con il sole, quindi con un astro che non appartiene alla schiera di quelli che non tramontano mai; oppure, nei Testi delle Piramidi, è associato, insieme a suo padre Osiride, a venere, rispettivamente alla “Stella Mattutina” e a quella “della sera”: Una preghiera alla stella del mattino affinché aiuti il Re nella sua casa: O Stella del Mattino, Horus del Duat, divino falco che il cielo generò: salute a te con questi quattro volti contenti che guardano colei che è in Kenzet e che disperdono la tempesta per amore della pace! Da al faraone queste tue due dita che desti alla Bella, la figlia del grande dio, quando il cielo fu diviso dalla terra e quando gli dei ascesero al cielo16. O faraone, via libera ti è data da Horus, tu brilli come la stella solitaria in mezzo al cielo, ti sono cresciute le ali come un falcone dall’ampio petto, come un falco visto di sera mentre attraversa il cielo17. Il faraone, identificato altrove come Osiride, è la stella solitaria della sera, come Horus è la stella del Mattino. Dalla lettura di questo dato emerge che mentre Seth e, pertanto, le energie a lui legate sono eternamente presenti, la dimensione della natura di Osiride e di Horus è invece quella del perpetuo cambiamento, di modifica e di purificazione, per il passaggio a stati di coscienza superiori. In definitiva, il rituale dell’Apertura della bocca ci fornisce indicazioni preziose per la comprensione dell’importanza rivestita dalle stelle in un senso tutt’altro che mantico. Si tratta di una valenza mitico-simbolica in cui non esiste alcuna corrispondenza rigida tra le parti, ma una fluidità ed una versatilità, nell’attribuzione dei significati e delle “signature” proprie di una visione olistica del mondo. In modo assai efficace Luìs G. La Cruz afferma: Il fatto che gli dei della magia rispondessero a un concetto panteista non è casuale, come hanno osservato gli storici ed egittologi Jacques Pirenne18 e Serge Saumeron. Questi dei si presentavano come potenze scomposte nei loro vari aspetti – e come tali potevano venire analizzati e contrapposti – nella misura in cui simbolizzavano le forze naturali. […] Thot, “contatore di stelle” (in quanto divinità che presiede al calcolo del tempo) e patrono dei maghi, era associato alla Luna, ma anche Iside era posta in relazione con lo stesso astro quando si presentava, considerando il suo movimento celeste, come “Casa di Osiride”. Tuttavia, isolatamente, la Luna era identificata con una divinità indipendente da entrambe. Su questa base metafisica gli Egizi costruirono la propria cosmologia, in cui l’ordine dell’Universo sorgeva da una legge di corrispondenze che articolava tutti i livelli della realtà in un’unica trama19. La riflessione di La Cruz prosegue mettendo in evidenza l’analogia esistente tra la concezione egiziana dell’Universo, inteso come trama in cui ogni elemento è una sorta di “sinapsi” per l’intero sistema e alcuni concetti della meccanica quantistica quale il dualismo “onda/particella” che si risolve, in definitiva, nella convertibilità di ogni particella in onda elettromagnetica e che lascia supporre la possibilità di compiere l’operazione contraria. Pur aprendo, così, una parentesi piuttosto lunga, vorrei fornire un ulteriore esempio, tratto dalla meccanica quantistica, che ritengo possa aiutarci ad avere una prospettiva ancor più corretta di quanto la mentalità egiziana avesse penetrato le leggi dell’Universo. Il 4 luglio del 1997 il professore Francesco De Martini dell’Università “La Sapienza” di Roma portò a termine una serie di esperimenti che dimostravano la possibilità del “teletrasporto quantico”. Anche se tale espressione evoca i più noti film della fantascienza, in realtà ciò di cui si parla è qualcosa di sostanzialmente diverso e a garanzia che, per l’appunto, di scienza si parli e non di fantasiose ipotesi, ho tratto le informazioni che riporterò dalla rivista ufficiale del CICAP (Centro Italiano Per il Controllo delle Affermazioni sul Paranormale): Scienza & Paranormale20. Gli esperimenti condotti riguardavano particelle sub-atomiche, in particolare i fotoni, cioè quanti di energia rilasciati dagli elettroni e che costituiscono i “mattoni” costituenti della luce (da “photos”, luce). Gli esperimenti condotti sul teletrasporto non hanno dimostrato la possibilità di “smaterializzare” un fotone per ricomporlo ad “anni luce” di distanza come in Star Trek, ma hanno messo in evidenza una particolare proprietà correlativa di alcuni fotoni chiamati gemelli di trasmettersi, quasi “telepaticamente”, informazioni. I “fotoni gemelli” sono due quanti di luce ottenuti attraverso un apparecchio chiamato convertitore verso le basse frequenze che, a partire da un fotone emesso da un raggio laser, ottiene due fotoni scindendo il primo in due quanti perfettamente identici. Negli anni novanta Rarity e Tapster del Royal Signals and Radar Establishment scoprirono che anche se i due fotoni gemelli vengono allontanati tra di loro[…] resta una correlazione tra i due, sebbene possano essere lontanissimi, cosicché una misura effettuata su uno dei due fotoni può alterare lo stato dell'altro21. Il teletrasporto quantico, quindi, non consiste nel trasporto di materia o di energia, bensì di informazioni. In termini schematici, gli esperimenti condotti all’Università “La Sapienza” di Roma hanno dimostrato che, ponendo due fotoni gemelli A e B anche a notevole distanza tra di loro, avvicinando un terzo fotone C ad A, simultaneamente le informazioni trasmesse a quest’ultimo vengono “ricevute” dal suo gemello B. L’esempio proposto da Parlangeli è assai chiaro: Immaginate che Alice, sulla Terra, voglia teletrasportare un mazzo di fiori al suo fidanzato Bob, su Marte. Come può fare? La strumentazione minima è di due cabine, il cui interno sia perfettamente isolato dal mondo esterno. Nella cabina sulla Terra, Alice inserisce sia il mazzo di fiori, sia una quantità esattamente uguale di “materia ausiliaria”22. Cioè una materia composta dagli stessi atomi dei fiori, ma senza una forma predefinita: una specie di “blob”. Questa materia deve avere un gemello su Marte [tale che] se si modifica il blob sulla Terra anche il blob su Marte si modifica istantaneamente23. Si comprende, in definitiva, che le informazioni, cioè l’ordine e la forma, che il “blob” sulla Terra venisse ad assumere, sarebbero le stesse di quelle che su Marte assumerebbe simultaneamente il suo gemello. 
L’esperimento di cui sopra dimostra non solo che il Cosmo è una trama le cui maglie sono delle “sinapsi”, ma che è anche possibile manipolare e muovere non solo energie, ma anche valenze, qualità, informazioni e quindi… forme pensiero. Tutto ciò prova inoltre un assunto fondamentale della via iniziatica: il tempo e lo spazio si svuotano di contenuto di fronte al principio fisico della simultaneità, del trasferimento istantaneo di informazioni. Un’altra questione, però, stupisce ed emerge proprio dalla “filosofia” che sottende la meccanica quantistica. L’esperimento sul teletrasporto, infatti, è non già l’atto finale, bensì quello più recente, di una querelle sorta tra gli scienziati, a partire dagli stessi Einstein e Bohr, sull’oggettività e sulla materialità dell’Universo. Il principio di Indeterminatezza di Heisemberg, uno dei capisaldi della meccanica quantistica, afferma che gli elettroni e, in generale, le particelle sub-atomiche sono dei non osservabili, poiché per le loro dimensioni qualunque tentativo di “osservarle” determinerebbe una loro alterazione che non ce le farebbe più conoscere nello stato iniziale, ma solo in quello alterato da noi. A partire da ciò si è arrivati ad una teoria che l’esperimento del teletrasporto ha dimostrato essere vera: gli oggetti quantistici si trovano in certi stati che non sono sempre dotati di valore definito delle osservabili prima della misura: infatti è l'osservatore che costringe la natura a rivelarsi in uno dei possibili valori, e questo è determinato dall'osservazione stessa, cioè non esiste prima che avvenga la misurazione. Per introdurre una definizione apparentemente audace […] le caratteristiche reali ed oggettive del sistema fisico sono definite solo quando vengono misurate, e quindi sono "create" in parte dall'atto dell'osservazione24. In altre parole e ricorrendo alla mitologia egiziana, potremmo dire che la materia che ci circonda è il Nun primigenio, il Caos o Acqua primordiale, acqua perché priva di forma e pronta ad acquisirne una, mentre l’osservatore, il ricercatore, rappresenta quel moto intellettuale e volitivo (la volontà è anche scelta) paragonabile ad Atum, che non crea dal nulla come nella religione giudaico-cristiana, ma genera la prima coppia di dei in seno allo stesso Nun; in altri termini, egli da ordine a ciò che non lo aveva: Ordo ab Chao. L’uomo, quindi, ad immagine e somiglianza del demiurgo, da nome alle cose, investiga ed investigando crea. Potremmo dire quindi che l’antica massima secondo la quale “tutto è in tutti” acquisisce una prova del tutto nuova a supporto. L’investigazione da parte dei sacerdoti egiziani intorno alla natura diventa al tempo stesso disvelamento dell’intima essenza dell’anima umana, la quale riconosce sé stessa nella natura, in quanto partecipe del suo principio ordinatore… Certamente la meccanica quantistica si ferma alla fisica, mentre il soprasensibile, la metafisica non viene neanche presa in considerazione; ma riesce comunque a dare una prova concreta di quanto le conoscenze intuitive degli egizi avessero penetrato il logos, cioè la ragione che regge il cosmo. Infatti, la conclusione alla quale pervengono entrambe è che la concezione materialistica e, pertanto, deterministica dell’Universo è da rigettare a favore di una prospettiva “idealistica” che vede il mondo in termini di informazioni, di… Idee
Se, infine, ci si chiede quale sia stato il metodo utilizzato dagli egiziani per intuire tali verità che sono chiaramente e per il principio di analogia sia fisiche che metafisiche, basterà ricordarsi che il sacerdote che voleva entrare in relazione, in comunione, con una divinità, oppure andare alla ricerca dell’anima del defunto, per potere poi officiare il rito funerario, doveva entrare in uno stato alterato di coscienza che gli permetteva di cogliere “immaginativamente”, nella luce astrale, quanto la ragione non avrebbe mai potuto sapere: La chiave del suo successo era la preparazione psicospirituale che doveva metterlo in comunicazione con la divinità, così che, svuotato di sé stesso, assumeva il potere della parola creatrice. Agiva in stato di trance […]. Tutto ciò aveva la funzione di indurre uno stato alterato di coscienza, propizio alla rivelazione caratterizzata dallo sblocco dell’inconscio25.
Prima di procedere e per riprendere un po’ il filo del discorso, vorrei, en passant, porre in luce due aspetti del passo riferito in precedenza e tratto dal rituale funerario egiziano. Che sia proprio Horus ad officiare la cerimonia dell’apertura della bocca, o, per meglio dire, a praticare l’apertura stessa, al fine di restituire al defunto l’energia vitale, il Ka, ha una doppia interpretazione in cui l’una non esclude affatto l’altra. La prima e, certamente, la più immediata è di carattere mitico. Secondo il mito, infatti, Horus, dopo avere sconfitto Seth, dona al padre Osiride il proprio Occhio sinistro, da cui l’interpretazione di Osiride-Luna, presente in Plutarco26, o anche di sole notturno, al fine di restituirgli la vitalità. Nel mito, però, si afferma che Horus, a sua volta, strappò i testicoli al dio sciacallo. Secondo Joseph Kaster ciò dimostrerebbe una particolare analogia tra le energie vitali associate ai genitali e gli occhi: È interessante notare che nel simbolismo dell’inconscio, così come si esprime nei sogni e nei miti, gli occhi in genere rappresentano i testicoli, in uno “spostamento dal basso all’alto”, come dice Freud. Il classico esempio di questo simbolismo è l’autoaccecamento di Edipo: l’autocastrazione come castigo per aver copulato con sua madre, nella “giustizia poetica”27. Sarebbe interessante in un prossimo lavoro parlare della capacità generatrice dell’immaginazione, ma in questa sede ci interessa soltanto limitarci all’importanza che il dio falco riveste nella restituzione del Ka al padre, evento, questo, che già da solo giustificherebbe la partecipazione attiva di “Horus” al rituale di apertura della bocca. In realtà, accanto a questo elemento di carattere mitico, se ne aggiunge un altro che lo arricchisce e lo rende più profondo. Depositario del Ka del padre può essere soltanto il figlio, cioè il “seme” del primo. L’energia vitale appariva, quindi, nell’immaginario egiziano, come una sorta di patrimonio genetico trasmesso di padre in figlio. L’analogia tra il mito di Osiride e Horus e quest’ultimo elemento è talmente evidente da ipotizzare una autentica continuità tra i due.
Un altro esempio, certamente più tardo, ci è fornito dal rituale del wep-renpet, del capodanno, che veniva celebrato ad Edfu il giorno stesso della levata eliaca di Sirio che, ancora in epoca Tolemaica, avveniva alla fine di luglio. In tale occasione era possibile ritrovare molti dei passaggi rituali cui abbiamo già fatto cenno. Innanzitutto la statua della divinità, in questo caso specifico quella di Horus itifallico, veniva costruita e “animata” grazie alla cerimonia di Apertura della bocca; successivamente veniva posta in una speciale abside con il viso rivolto verso sud, come dio che “proviene” dal nord. Questo aspetto ci conferma la versatilità e duttilità delle concezioni, o meglio, dell’immaginazione del popolo egiziano, che lungi dall’essere costretto all’interno di una rigida teologia, intuiva attraverso quel potere immaginativo indispensabile a qualunque forma di teurgia, i giusti rapporti archetipici delle diverse circostanze in cui doveva operare. 
Il giorno della levata eliaca di Sirio, la statua della divinità, accompagnata da un corteo di altri dei e dee, tra cui Hathor, con la quale due mesi più tardi si sarebbe unito in una ierogamia tesa a benedire l’inizio della semina, era condotta sul tetto del tempio, sommità, quest’ultima, tesa a rievocare l’atto di auto-creazione da parte di Atum sulla collina primordiale apparsa in seno a Nun. La statua di Horus itifallico veniva ancora una volta orientata secondo l’asse nord-sud, ma le celebrazioni in suo onore prevedevano una serie di atti rituali di cui era protagonista il sole, cioè l’Horus vivente che al momento del mezzogiorno avrebbe restituito alla statua, e tramite essa al Faraone di cui era simbolo, l’energia esaurita nel corso dell’anno passato. Due considerazioni sono immediate. Innanzitutto Horus da un lato è identificato con il sole, dall’altro come divinità che proviene dal nord. Anche in questo caso non voglio dare interpretazioni simboliche che sarebbero senz’altro arbitrarie, ma l’insistenza degli egiziani nei confronti di questo orientamento a dispetto di altre concezioni che vorrebbero che durante cerimonie volte alla rigenerazione ci si rivolga verso est dovrebbe fare riflettere. Inoltre, il momento preciso in cui la statua era rigenerata era il momento magico del mezzogiorno. Tutto sembra suggerire l’idea incessante, quasi ossessiva, della verticalità in cui si era sempre presente la differenza tra l’obiettivo della eternizzazione dell’Akh, secondo l’asse nord-sud, e quello transitorio, ma altrettanto indispensabile, della purificazione, della catarsi del Ba attraverso il ciclo di nascita e morte, secondo l’asse est-ovest. Il secondo aspetto da sottolineare, certamente, è il fatto che nonostante siano passati circa 2500 anni dalla composizione dei testi delle piramidi all’epoca in cui veniva celebrato il rituale del wep-renpet ad Edfu, i principi informatori di natura stellare, ancor più che calendariale, non sono mai venuti meno. D’altra parte l’importanza del calendario egiziano, in riferimento alla levata eliaca di Sirio è nota. Tuttavia non ci troviamo di fronte ad una concezione di natura astrologica o mantica. Certamente l’astrologia sarà presente nella cultura egiziana, ma solo in epoca assai tarda, prossima al periodo tolemaico. Ogni riferimento alle stelle, quindi, aveva un carattere mitico-simbolico basato non sulle possibili influenze di tale o tal altra stella, bensì sulla considerazione che la presenza di alcune costellazioni in cielo fosse il segnale maggiormente visibile della manifestazione sulla terra di energie e polarità naturali ben precise. In altri termini, prendendo come esempio il ritorno della fenice, cioè il ripresentarsi ogni anno di Sirio dopo circa settanta giorni di occultamento, in cui Iside si nascose per proteggere Horus ancora infante, ed è preceduta dalla comparsa di Orione, Osiride risorto, è certamente da escludere qualunque teoria che voglia tale calendario di natura astronomica. Dice Neugebauer: Non è questo il momento per tentare una descrizione della storia del calendario egiziano. Ma il suo carattere non astronomico è sottolineato dal fatto che l’anno è diviso in tre stagioni di quattro mesi ciascuna, di significato puramente agricolo. Il solo concetto astronomico apparente è il sorgere eliaco di Sirio che, comunque, ottiene la sua importanza solo dalla sua prossimità al tempo dell’inondazione, l’evento principale nella vita dell’Egitto28. A conferma di quanto detto è l’invocazione 477 dei testi delle piramidi: È Sothis la tua amata sorella che prepara il tuo sostenimento per te nel suo nome di “Anno” e che mi guida quando vengo a te. Secondo Edoardo Detoma: L’aspetto astronomico del sorgere eliaco di Sirio è una conseguenza osservativa, e dunque non la misura della durata dell’anno, regolata, come già osserva Erodoto, dall’inondazione annua delle acque del Nilo. Quindi, a partire da un calendario più antico di natura lunare, l’inondazione annua del Nilo conduce ad un anno civile “solare”, inizialmente definito unicamente dall’evento fisico, e poi determinato astronomicamente sulla base delle osservazioni del sorgere eliaco di Sothis29. Tenere presente questo passaggio è di estrema importanza per non cadere nell’errore di ritenere che gli egizi abbiano “scoperto in cielo” i cicli naturali della terra. D’altra parte la sacralità del calendario sothiaco ci è attestata dal rifiuto dei sacerdoti egizi in epoca tolemaica di dar seguito ad un decreto, quello del bilingue “Testo del Canopo” datato 6 marzo 237 a.C., in cui si richiedeva una riforma dell’anno caniculare per adattarlo all’anno lunare. L’esigenza era di natura sociale e religiosa. L’anno caniculare e l’anno civile non coincidevano e ciò generava grande confusione nella celebrazione delle festività religiose che, ovviamente, nel tempo andavano cadendo in stagioni via via diverse. Ciò che conta, però, non sono tanto le ragioni che spinsero a formulare tale decreto, bensì il rifiuto della casta sacerdotale a modificare il calendario. C’è da chiedersi se ciò dipendesse realmente da dogmatismo religioso, come vorrebbe il Detoma, oppure se ciò non dipendesse da una visione intuitiva, per nulla razionale, e per ciò stesso inconciliabile con la razionalità greca, di una corrispondenza tra la terra e il cielo che veniva certamente espressa in modo più preciso dal calendario egiziano. Solo come ulteriore provocazione aggiungeremo che, nel De revolutionibus orbium coelestium, Copernico afferma: Inoltre, nei nostri calcoli dei moti celesti, impiegheremo gli anni Egiziani, […]. Poiché è necessario per la misura essere in accordo con ciò che è misurato; ma ciò non si verifica con gli anni dei Romani, dei Greci e dei persiani, […]. Per questa ragione gli anni Egiziani sono i più convenienti per calcolare moti regolari30.
Un ruolo assai rilevante era dato dai trentasei decani. Si trattava di liste di trentasei stelle, variamente descritte e nominate tra la IX e la XII dinastia, rappresentante ognuna una decade. Cosa probabilmente meno nota era data dal fatto che i decani, o meglio le trentasei stelle che li individuavano, erano utilizzati anche per la determinazione dell’ora notturna in cui ci si trovava. Tali stelle appaiono nelle iscrizioni disposte in dodici file rappresentanti le 12 ore della notte della durata, in realtà, di circa 40 minuti. Ogni dieci giorni la stella che compariva all’orizzonte dopo il tramonto cambiava inaugurando, così, l’inizio di un nuovo ciclo. Come messo in luce da Wallis Budge31, ogni decano aveva sia un nome sia una divinità tutelare sotto la quale veniva posta. Ad esempio, il nome del diciottesimo decano è Semdet e la sua divinità tutelare è Horus, come dire un genio ed un governatore
Senza perdere mai di vista le considerazioni fino ad ora fatte vorrei citare un passo di Kremmerz tratto da una sua conferenza tenuta il 16 gennaio 1921 al Circolo Vergiliano, in occasione della quale spiega proprio i principi dello zodiaco egiziano: I Decani non appartengono né alla classe dei generati – Geni – né alla classe eonica: sono personificazioni influenzali. […] I decani sono le influenze astrali costellari che agiscono nel periodo di dieci giorni. Così, per esempio, dall’8 al18 febbraio, si dice che il decano è saturniano. Che significa saturniano? Saturno è il padre degli Dei, uccide il figlio, è avido, cupo, malinconico. Questi caratteri li troverete dall’8 al 18 febbraio. Le influenze costellari o condizioni magiche, elettriche, metereologiche, barometriche, tendono a darvi quel senso. Quindi malinconico, acido, indigesto. Subito dopo afferma, in modo assai esplicito, che se il decano dominante fosse quello di venere ciò vorrebbe dire che posso fare l’amore, tutto il creato influisce in maniera che lo spirito umano è portato più verso l’amore che verso l’odio. Queste affermazioni del Maestro di Portici, sembrano confermare quanto abbiamo fino adesso affermato intorno alla visione egiziana degli astri. Essi permettevano all’uomo di fissare in maniera stabile le condizioni metereologiche e barometriche e pertanto magiche della natura, all’interno della quale, secondo le dottrine care ai neoplatonici, l’anima è copula mundi
In altri termini, la visione egiziana è informata al più tradizionale geocentrismo, intendendo con quest’ultimo termine non certo una realtà di natura astronomica, bensì la relazione analogica tra Humus e Anima, visibile nel macrocosmo e sintetizzata nel microcosmo. Il geocentrismo, poi, come suggerisce quanto abbiamo detto intorno alla visione del mondo e della conoscenza offerte dalla meccanica quantistica, non può certo essere disgiunto dall’antropocentrismo. Il sacerdote egiziano non era un dogmatico dedito alla religione in un senso squisitamente fideista. Potremmo definirlo, con un espressione suggeritami da N.R. Caesar Augustus, un “ricercatore del sovrasensibile”, un adepto le cui speculazioni metafisiche non erano frutto di ricercate costruzioni logiche, ma di “impressioni” che il suo ochema-pneuma riceveva sia da realtà ulteriori, sia da un’intima visione della propria anima, scintilla divina e, perché no, archetipo vivente della natura. Il veicolo dell’anima, il potere immaginativo del sacerdote gli consentiva di intuire, attraverso le analogie che la realtà esterna proponeva, verità nascoste nella propria sfera spirituale attraverso quello che potremmo definire “idealismo magico”, cioè l’emergenza dell’inconscio del soggetto che proietta nella natura il proprio logos. Come affermava Novalis, però, la ragione non è in grado di cogliere l’unità e la continuità tra sé e la natura, poiché gli schemi logici inibiscono proprio l’emergenza dell’inconscio32. Lo scrittore jenese individuava nella poesia lo strumento più efficace per raggiungere il suo fine che era quello di cogliere la propria spiritualità in quella della natura. Si tratta, in altri termini, della mania poetica di cui parla Platone nel Fedro, cioè di quello stato alterato di coscienza in cui le Muse, interpretabili sia come enti oggettivi (geni, eoni, numi) sia come dimensioni inconsce, trasformano l’uomo in vate: V’è una terza forma di esaltazione e delirio, di cui sono autrici le Muse. Questa, quando occupa un’anima terrena e pura, la sollecita e la rapisce nei canti e in ogni altra forma di poesia, e celebrando le infinite opere del passato, educa i posteri. Ma chi giunga alle soglie della poesia senza il delirio delle Muse [cioè lucido e cosciente, n.d.r.], convinto che la sola abilità lo renda poeta [abilità logiche, ovviamente, n.d.r.], sarà un poeta incompiuto e la poesia del savio sarà offuscata da quella dei poeti in delirio33. Questo passo pone un’inevitabile domanda: quanto delle formule magiche, delle iscrizioni e dei miti dei Testi delle Piramidi, del Papiro di Ani, etc., non sono in realtà emergenza dell’inconscio? La risposta verso cui propendiamo è scontata. Certamente, come nel caso del rituale dell’apertura della bocca, risulta facile prendere posizione di fronte alla questione se la pratica religiosa sia la drammatizzazione del mito, se, al contrario, il mito esprima una credenza ed un’usanza diffusa, oppure, come emergerebbe da quanto detto, entrambe le cose non siano che il frutto dell’indagine del soprasensibile operata in stati alterati di coscienza. D’altra parte, recitare con voce giusta le formule magiche sarebbe analogo all’essere ispirato dalle Muse, cioè colti da delirio.
Geocentrismo e antropocentrismo, quindi, rappresentano i due termini imprescindibili attraverso cui è possibile comprendere la natura stessa dei “riti” officiati tanto nel passato quanto nel presente, in una prospettiva che, attraverso il proprio ochema-pneuma, attivato in stati alterati di coscienza, dovrebbe condurre alla rottura dei muri divisori tra inconscio e coscienza, provocando una irruzione del primo nella naturale sfera d’azione della seconda e la percezione reale e concreta di perfetta continuità tra il sé e la natura.

 

 

(Tratto da Elixir  n° 7 con il permesso delle Edizioni Rebis)


1 Divinazione e mantica non andrebbero confuse. Mentre quest’ultima concerne la semplice previsione di eventi attraverso “segni”, la prima si riferisce ad una vera e propria presa di contatto con intelligenze, dei o numi. La mantica non muta l’uomo. La divinazione è teurgia, è innalzamento dell’uomo ai piani superiori, mercé il contatto con enti invisibili.

2 EDDA BRESCIANI, Grande enciclopedia illustrata dell’Antico Egitto, Novara, 2005, p. 60.

3 DAMIAN GREENWELL, Ancient egyptian temples: the foundation ceremony and foundation deposits, in «THE OSTRACON», vol. 16, n.2, 2005, p. 4.

4 CLAUDIO ARRIGONI, Merilno: l’eletto di Isidiana, in «ELIXIR», N. 1, p. 46, 48.

5 R.O. FAULKNER, The King and the Star-Religion in Pyramid Texts, in «Journal of Near Eastern Stuidies», vol. 25,  n. 3, Luglio, 1966, pp. 153-161.

6 ROBERT BAUVAL- ADRIAN G. GILBERT, Il mistero di Orione, Milano, 1998.

7 R.O. FAULKNER, The ancient egyptian Pyramid Texts, New York, 1998, §408, §927, §186, §1436-1437.

8 IBIDEM, §405, §876.

9 IBIDEM, §2972-2973.

10 Q.A.D, Magia Avatarica: una nota ulteriore per qualche riflessione in più, in «ELIXIR», n. 2, p. 35.

11 EDDA BRESCIANI, op. cit., p. 136.

12 STEFANO MAYORCA, Memorie di un passato arcano. Rituaria e bellezza nelle antiche cerimonie cultuali e funerarie, in «ELIXIR. Aequinoctium», N° 2, pp. 73-77.

13 IBIDEM, p. 75.

14 AA.VV., RITUELS FUNERAIRES DE L’ANCIENNE EGYPTE, Paris, 1972, p. 132

15 IBIDEM, p. 138.

16 O. FAULKNER, op. cit., §1207-1208.

17 IBIDEM, §1048-1049.

18 JACQUES PIRENNE, History of Anncient Egypt, 2003.

19 LUIS G. LA CRUZ, I segreti della Casa della Vita, in «Hera», n. 40, Aprile 2003, p. 57.

20 ANDREA PARLANGELI, Il teletrasporto in laboratorio, in «Scienza & Paranormale», N. 45 Anno X– Set/Ott 2002.

21 FABBRIZIO COPPOLA, Il segreto dell’universo, Firenze, 2002, Cap. 3, § IX.

22 Cioè uno dei due fotoni gemelli.

23 ANDREA PARLANGELI, op. cit.

24 FABBRIZIO COPPOLA, op.cit., Cap. 3, § V.

25 LUIS G. LA CRUZ, op. cit., p. 61.

26 PLUTARCO DI CHERONEA, De Iside et Osiride, 45-46, 369a-e; 49, 371a. In effetti, una precisazione è necessaria. Plutarco mette certamente in relazione Osiride con la luna, ma non nel senso di “sole notturno”. La lunarità di Osiride deriverebbe piuttosto dal fatto che tale divinità era all’origine connessa ai culti agresti e fortemente collegata ai riti della fertilità. Non bisogna dimenticare, infatti, che tra i suoi nomi vi sono quelli di “Grande Nero”, con riferimento evidente alla terra fertile, e di “Grande Verde”, esplicitamente connesso alla vegetazione.

27 JOSEPH KASTER, La saggezza dell’antico Egitto, Roma, 1998, p. 76, nota 103.

28 O. NEUGEBAUER, The exact sciences in antiquity, Dover, p. 82.

29 EDOARDO DETOMA, L’astronomia degli egizi, in AA.VV., «Scienze moderne e antiche sapienze», 2003.

30 N. COPERNICO, De Revolutionibus Orbium Coelestium, libro III, fine.

31 E. A. WALLIS BUDGE, The Gods of the Egyptian, Oxford, 2002, pp. 304-308.

32 NOVALIS, I discepoli di Sais, Milano, 2001, pp. 118-120

33 PLATONE, Fedro, 245a.

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