Solstizio: Sul Mistero della Luce Aurorale, di Roberto Incardona

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Arturo Reghini, delineando attraverso un sapiente studio etimologico “l’arcaica maturità fi­losofica di quel grande popolo proto-ario, di cui la filologia sta delineando l’esistenza ed i carat­teri, pure senza potere stabilire la sede e senza affatto pretendere di attribuire ad una delle lin­gue sorelle una primogenitura”, dava un particolare rilievo alla voce “aurora”, di cui scriveva: “La parola aurora dall’antico ausosa ed aura cioè splendore, ed il grecoéόs ed aura, aria mattinale, ed il sanscrito ushậ, aurora, provengono tutti dalla radiceush che significa bruciare, ìn latino uso e poi, per il solito fenomeno di rotacismo, uro;radice ancora visibile nell’italiano ustione. Ushậ significa in sanscrito anche combustione, ed ush è la luce del mattino, ed il tedesco östan e l’in­glese east per indicare il punto cardinale dove spunta l’aurora vengono probabilmente dalla stes­sa radice”(1). Fatti linguistici, questi, che testimoniano come le antiche tradizioni religiose e sa­pienziali d’Oriente e d’Occidente, hanno, seppure in forme e modi diversi, attribuito al mo­mento aurorale un importante significato simbolico e sacrale.

Già nel Rig-veda, una ventina di inni è dedicata a Usás, la Dea dell’Aurora, ricordata più di trecento volte, sia al singolare, sia al plurale. Gli Indiani “se la rappresentavano come una bel­lissima fanciulla vestita di luce, oppure ravvolta nei gai panneggiamenti di una danzatrice che, giungendo dall’Oriente, rivela le sue grazie. Dice anche il Veda che essa si affaccia luminosa, come emergente da un bagno (immagine che ricorda la nascita di Afrodite), mentre caccia innanzi a sé le tenebre e cosi pure i sogni ed i cattivi pensieri”(2).

Usás è “figlia del Cielo” (Dyaús) e sorella della Notte (Nakt-ā), a cui viene anche grammaticalmente associata nel composto duale ushasā-naktā. Ritenuta sposa e sorella del Sole (Sūryā), Usás è intimamente legata alla coppia degli Ashvin, i Dioscuri indù, sul cui triplice car­ro essa procede ed annuncia l’apparire del sole(3).

Talvolta, per il fatto che nell’India vedica il fuoco sacrificale veniva acceso all’alba,Usás vie­ne detta l’Amante di Agnì”, il fuoco. Tra gli altri epiteti, Usás è invocata come “Madre delle vacche”, perché in vedico gauh (gò) significa sia “vacca”, sia “raggio di luce”. Pertanto le vac­che (si ricordino gli omerici “armenti del Sole”) vengono identificate alle rosse luci dell’Aurora, che, a loro volta, sono il simbolo della interiore illuminazione spirituale. Usás, in quanto Madre dei Raggi della Luce, è quindi colei “che ha creato la percezione visiva della mente, cioè l’im­maginazione creatrice”(4).

In Grecia è Eos la personificazione dell’Aurora. Ella appartiene alla prima generazione divi­na, quella dei Titani(5). Eos è infatti figlia della coppia titanica Iperiore e Tea. Come la vedica Usás, anche Eosè sorella del Sole (Elio) e di Selene (la Luna). E’ rappresentata come una Dea le cui dita “color di rosa” aprono le porte del Cielo al carro del Sole. Quando Elio appare, Eos diventa Emera, “il giorno”, oppure, con un’antica parola, Tito, forma femminile di Titano(6), che pure significa il giorno(7). Ed è ancora Eos a trasformarsi in Espera, quando annuncia il fe­lice arrivo del Sole sulle spiagge occidentali dell’Oceano(8).

Su Eos l’antica tradizione greca ci ha conservato diversi racconti(9), che però non interessano direttamente il tema di cui ci stiamo occupando, pertanto su di essi non fermeremo la nostra attenzione.

Passando al mondo italico e romano, vale la pena di sottolineare come Virgilio faccia coin­cidere il primo avvistamento da parte di Enea del litorale laziale e della foce del Tevere, le “ri­ve ausonie”, col momento dell’aurora:

“Già il mare rosseggiava di raggi, e dall’alto etere
l’Aurora dorata rifulgeva sulla rosea biga”(10).

Ora, il Reghini faceva notare come il Curtius dalla “radice ush e dalla sua forma ampliatavas trae anche il greco èlios, eelios, dorico aèlios, mediante una ipotetica forma intermedia ayelios=ayselio”, quindi così concludeva: “I Sabini che si chiamavano gliauselii (aurelit) chiamava­no il sole ausel, e gli Etruschi usil; il latino sol probabilmente si riattacca a questa radice. Gli Italiani sarebbero dunque gli Ausonii, presso a poco come i Cinesi sono i figli del cielo”(11).

Nel mondo delle nostre origini, la Dea del mattino e della luce aurorale è Mater Matuta.E’ merito di Georges Dumézil l’aver eliminato, oltre che con un magistrale studio comparativo di Matuta con la vedica Usás, anche con una lucida discussione delle etimologie antiche e mo­derne, i vari equivoci che impedivano la corretta interpretazione di questa figura divina(12). La tradizione romana attribuiva a Servio Tullio la fondazione del tempio di Mater Matuta nel Foro Boario, che era quindi considerato antichissimo, tanto che nel 396 a.C. fu rifatto in seguito ad un voto del dittatore Camillo(13). In questo tempio, l’11 giugno, si celebrava la festa della Dea, i Matralia, riservata esclusivamente alle matrone “univirae”, cioè sposate una sola volta(14).

Pur senza addentrarci nell’esame dei riti che si svolgevano in quella occasione, poiché que­sto ci allontanerebbe troppo dal nostro argomento, va qui ricordato che il tempio diMater Matuta era normalmente vietato alle donne di condizione servile, ma, proprio nel giorno dei Matralia, il rito prevedeva che una schiava fosse introdotta nel luogo sacro per poi esserne scacciata a colpi di verga(15). Secondo l’interpretazione datane dal Dumézil, per comprendere il significato dell’azione rituale delle matrone romane, occorre gettare uno sguardo alla mi­tologia della vedica Usás: “per aiutare, in virtù di magia simpatetica, l’Aurora che verrà ritar­data dall’imminente stagione, le matrone romane fanno una volta l’anno nei Matralia, ciò che ogni mattina viene fatto da Usás o dalle Aurore, Usásah, in una collettività che talvolta i poeti nobilitano tutta insieme per ogni singolo mattino: cioè un servizio negativo, di ripuli­tura, e il suo corollario positivo”(16).

Usás, infatti, secondo l’espressione degli inni vedici a lei dedicati, “respinge la tenebra co­me un arciere eroico caccia i nemici”(17). Le Aurore “levano e scacciano la tenebra della notte conducendo la testa dell’alto sacrificio”(18). Dice ancora il Dumézil: “Gli inni presentano così il fenomeno naturale del principio del giorno come la cacciata violenta delle tenebre, della tenebra, assimilata al nemico, al barbaro, al demoniaco, alla ‘informità’, al pericolo ecc., che viene compiuta dall’Aurora o dalla schiera delle Aurore [...](19)”.

Recita infatti un inno:

“L’Aurora cammina, dea, respingendo
con la luce tutte le tenebre, i pericoli;
ecco sono apparse le Aurore brillanti; [...]
la tenebra se n’è andata all’occidente,
la odiosa(20)”.

Ed è esattamente la medesima azione che viene mimata nei Matralia dalle bonae matres ro­mane, contro una schiava che rappresenta, per opposizione ad esse, l’elemento “oscuro”, ne­gativo e malvagio.

Anche a livello cosmico-calendariale la festa di Mater Matuta viene a segnare l’inizio della nuova fase dell’annualità. Come è noto, nessun rito pubblico segna a Roma il solstizio d’e­state; tuttavia i Romani si rivolgevano nella sua imminenza, l’11 giugno, che è la festa più vi­cina ad esso, alla Dea dell’Aurora, a Mater Matuta: “I Matralia erano l’aurora del giorno più lungo dell’anno (il solstizio d’estate) che sarebbe venuto verso la fine della lunazione (il 21 giugno); era in effetti proprio il solstizio d’estate che segnava l’inizio del semestre, così come il solstizio d’inverno ne segnava la fine”(21). Ed è stato opportunamente notato che la vicinan­za dei Matralia al solstizio estivo ha la sua controparte simmetrica nella posizione calenda­riale degli Agonalia dell’11 dicembre, giorno dedicato alla celebrazione del “Sole antenato”(22). Quest’ultima festa, poi, preparava lo sforzo della silenziosa Angerona nel giorno del solstizio d’inverno. Così, “se i Matralia rappresentano l’aurora del secondo semestre, gli Agonalia ne sono il crepuscolo(23)”.

Esaminate, seppur brevemente, alcune personificazioni divine dell’Aurora nelle tradizioni sacrali dell’India vedica, dell’antica Grecia e di Roma, ci resta da capire, dal punto di vista in­teriore, qual è esattamente il “mistero” che si cela dietro il simbolismo (o forse sarebbe più giusto dire nell’esperienza) della “Luce aurorale”.

Che vi sia un aspetto “misterico” in tale simbolismo, già lo si evince rimanendo entro l’an­tico mondo mediterraneo. Il Kerényi, nel suo notevole studio sui misteri dei Kabiri, sottoli­nea infatti come la sede di tali misteri, Samotracia (citata da Virgilio nello stesso canto VII da cui viene il passo “aurorale” di cui sopra, ove l’isola è messa in relazione con Dardano qua­le progenitore tirreno dei Troiani(24)), avesse come altri nomi “Leukania, quale isola della bian­ca luce mattutina, e isola di Elektra, luminosa dea solare”(25). Particolari molto interessanti, se si ricorda che Mater Matuta era a Roma interpretata come Ino-Leukothea (la “Dea Bianca”)(26) e che, avverte ancora il Kerényi, il santuario dei Kabiri sulla strada che da Tebe (patria di Cadmo, genitore di Ino-Leukothea!) portava a Lebadeia si situa presso “quella pianura che nel­l’antichità si chiamava `Aonia’” e tale nome geografico, lo si traduca “in ‘pianura dell’aurora’ o pianura della gente dell’aurora’, “fatto sta che esso deriva da `Eos’, l’aurora”(27).

Tuttavia, per tentare di penetrare il “mistero dell’aurora”, ci avvarremo degli insegnamenti della tradizione iranica, che, forse più di ogni altra, ha valorizzato i significati spirituali del simbolismo aurorale.

Nella “geografia sacra”, o, come è stata definita dal Corbìn, nella “geografia immaginale”(28) dell’Iran antico, troviamo, menzionata tra le altre montagne sacre che costituiscono la sede per eccellenza delle teofanie e delle angelofanie, la montagnaUshidarena, cioè la “Montagna delle Aurore”. Lo Yasht XIX, un canto liturgico espressamente dedicato a Zamyāt, l’Angelo del­la terra, si apre con una strofa in lode di questa Montagna delle Aurore. Essa, viene detto, è fatta di rubino, della sostanza del cielo, è situata al centro del mare cosmico Vourukasha, in cuí essa versa le acque che riceve da un’altra montagna sacra, Hȗkairya, che, a sua volta, ver­sa il flutto delle acque celesti di Ardvȋ  Sȗrậ Anậhitậ (“l’Alta, la Sovrana, l’Immacolata”)(29). Ushidarena è la montagna illuminata per prima dai fuochi dell’aurora,(30) ed è anche (per una omofonia) quella che dona agli uomini l’intelligenza. Come infatti ha correttamente chiari­to un noto studioso nella sua introduzione allo Yasht XIX prima menzionato, “la montagna illuminata per prima dai raggi dell’aurora, illumina anche l’intelligenza, perché aurora(ushậ) e intelligenza (ushi) sono una sola cosa(31)”.

Va aggiunto che la tradizione iranica ha attribuito il nome Oshbậm al raggio dell’aurora, in particolare a “quel raggio di sole che viene dopo il momento in cui la luce del sole è visibile, senza che il suo corpo lo sia ancora, sino al momento in cui diviene visibile (l’alba). La sua funzione è di dare l’intelligenza agli uomini”(32).

Ma, a prevenire errori ed equivoci, l’’intelligenza” che proviene dai raggi della luce aurora­le non è, ovviamente, l’intelligenza comune, ordinaria, è, come già dicemmo parlando dell’Usás vedica, quella speciale percezione visiva della mente che chiamiamo “immaginazione creatrice”, “Immaginazione che, lungi dall’essere invenzione arbitraria, corrisponde a quella che gli alchimisti chiamavano Imaginatio vera e che è l’ astrum in homine(33)“.

Ma l’antica sapienza iranica attua anche un’importante connessione tra la montagna delle au­rore e l’escatologia: il Rituale mazdeo prescrive infatti di consacrare un’offerta all’Angelo Arshtật (figura che viene presentata il più delle volte come l’angelo della “Rettitudine”, ma che in realtà non è altro che una forma apparizionale dello Xvarnah, laLuce di Gloria(34)all’ora di Ushahin (cioè da mezzanotte all’alba), e lo spiega col fatto che la montagna dell’aurora è men­zionata in propiziazione dell’Angelo Arshtật. “Ed ecco – come scrive il Corbin – che la connessione si chiarisce: è alla fine della terza notte che segue il decesso, al levarsi dell’aurora, che l’anima deve affrontare la prova del PonteChinvat. La montagna dell’aurora è dunque avvol­ta dalla Luce di Gloria precisamente nel momento in cui l’anima è chiamata a dare testimo­nianza di ciò che è stata la sua esistenza terrestre in presenza dell’Angelo Arshtậte di Zamyật, l’Angelo della Terra, che assistono ambedue l’Amahraspand Amertật nella ‘pesatura delle anime’”(35). Recita infatti il testo liturgico mazdeo: “Le anime sono nella luce dell’aurora quando vanno al rendimento dei conti: il loro passaggio avviene attraverso l’aurora splendente”(36). Da quanto detto appare ormai evidente che ciò che in realtà viene percepito nella monta­gna irradiata dalla Gloria delle aurore non è il banale fenomeno astronomico, ma l‘Aurora d’im­mortalità.(37)

Non senza motivo, nel contesto di un’altra tradizione, quella buddhista, viene narrato che lo stesso Buddha ebbe la sua illuminazione al sorgere dell’aurora, quando, dopo aver trascorso ancora una notte in meditazione, alzò gli occhi al cielo e scorse improvvisamente la stella del mattino. Così, nella filosofia mahậyậnica, la luce del cielo all’alba, senza il chiarore della lu­na, è andata a simboleggiare la “Chiara Luce chiamata il Vuoto Universale”. “Questa Luce aurorale è detta ‘chiara’, ‘pura’, cioè non solamente senza macchia né ombre, ma anche sen­za colore, senza una qualsiasi determinazione. Per questo è chiamata ‘Vuoto Universale’, il ter­mine ‘vuoto’ (çunya) designando per l’appunto ciò che è privo di ogni attribuzione, di ogni specificazione: è l’Urgrund, la realtà ultima”(38)

 

  1. A. Reghini, Paganesimo Pitagorismo Massoneria, a cura dell’Associazione Pitagorica, Furnari (ME) 1986, pp. 134 e 139.
  2. P. Filippani-Ronconi, Magia, religioni e miti dell’India, Roma 1981, p. 33.
  3. Sul rapporto tra Usás e gli Ashvin, cfr. R. Incardona, Deniterni Castores. Il culto dei Dioscuri nel mondo in­doeuropeo, Messina 1987, pp. 4-5.
  4. P Filippani-Ronconi, op. cit., p. 33.
  5. Cfr. Esiodo, Theog. 372.
  6. Cfr. Pausania, I, 3, 1; Licofrone, 941.
  7. Cfr. Schol. a Licofrone, 941. K. Kerényi, Gli dèi egli eroi della Grecia, Milano 1984, vol. I, p. 184.
  8. Omero, Od. V, I; XXIII, 244-46. Teocrito, Id. 11, 148.
  9. Per queste fonti, cfr. Apollodoro, BibI I, 2, 2; 4, 4; 9, 4; III, 12, 4 sgg; 14,3. Esiodo,Theog. 371 sgg.; 378 sgg., 986 sgg. lgino, Fab. 160; 189; 270. Pindaro, OL II, 83; Paus. l, 3, 1; Euripide, HyppoL 454 sgg.
  10. Aen. VII, 25-26 (trad. L. Canali, Milano 1985). Per le “rive ausonie”, v. VII, 40.
  11. A. Reghini, op. cit., pp. 139-140
  12. Cfr. G. Dumézil, Déesses latines et mythes védiques, Bruxelles 1956, specialm. pp. 9-43.
  13. Cfr. Livio, V, 19, 6. Plutarco, Camill.5, I sgg. Un secondo rifacimento di questo tempio ebbe luogo nel 212 a.C., dopo che era andato distrutto da un incendio. Per adempiere a questo compito, venne apposita­mente creato un triumvirato. Cfr. Livio, XXV, 7, 5 sgg.
  14. Cfr. Ovidio, Fast. VI, 475.; Tertulliano, De monog., XVII, 3.
  15. Per le fonti, cfr. Ovidio, Fast. VI, 473 sgg.; Plutarco, Qu.. Rom. 16 e 17; Plutarco,Camill. V, I sgg.
  16. C. Dumézil, La religione romana arcaica, Milano 1977, p. 60.
  17. RV 6, 64, 3.
  18. RV 6, 65, 2..
  19. G. Dumézil, op. cit., p. 61.
  20. RV7 ,78, 2 e 3.
  21. D. Sabatucci, La religione di Roma antica, Milano 1988, p. 207.
  22. Cfr. ibid., pp. 207 e 339.
  23. Ibid, p. 207.
  24. Cfr. Aen.,VII, 205 sgg
  25. K. Kerényi, Miti e misteri, Torino 1979, p. 165.
  26. Cfr. Ovidio, Fast. VI, 480; Met., IV, 539 sgg. Vedi anche D. Sabbatucci, op. cit., pp. 207-208.
  27. K. Kcrényi, op. cit., p. 165.
  28. H. Corbin, Corpo spirituale e Terra celeste, Milano, 1986, p. 53. Per le considerazioni che seguono ci sia­mo costantemente avvalsi dell’opera di questo eminente studioso, dedicata ad alcune correnti teosofiche ed csoteriche del sufismo iraniano.
  29. Cfr. ibid., pp. 52-54. kairya, la montagna delle acque primordiali, è anche il “luogo” dove cresce l’ Haoma bianco, la pianta d’immortalità.
  30. Cfr. Bundahishn, XII, 6; XIII, 3-5.
  31. J. Darmesteter, Le Zend-Avesta, Paris 1892, t. II, p. 663, n. 98.
  32. Ibid, t. II, p. 316. E’ interessante confrontare la radice comune delle due parole ush,“orecchio”, “in­tendimento” e anche “aurora”, con il latino aures, aurora. Cfr. E. Herzfeld, Archdologische Mitteilungens aus Iran, II, p. 90. J. Hertel, Die awstischen Herrschafis – und Siegesfeuer, Leipzig, 1931, p. 17.
  33. H. Corbin, op. eh’.,p. 41.
  34. Cfr. J. Hertel, op. cit., pp. 60-64, spiega i nomi Ashi, Arshri: “irradiazione” comenomen actionis, e “ir­radiante” come nomen agentis. Arshtật: “Stato di essere irradiato, radianza ininterrotta o somma di tutto ciò che è irradiato”. EH. Corbin, op. cit., p. 282 n. 116, ricollega tali concetti con la nozione di Niir qahrî(Luce vittoriale, trionfale) nella filosofia “orientale” di Shihâboddîn Yahya Sohravardî.Arshtật è dunque “colei che attiva e rende permanente l’energia del Xvarnah, cioè ‘colei che trasforma gli esseri viventi in fuoco celeste’. Cfr. ibid, n. 117; e J. Hertel,op. cit., pp. 68-69.
  35. H. Corbin, op. cit., p. 54.
  36. Cfr. Sȋròza, 39, Darmesteter, op. cit., t. II., p. 321.
  37. Nella stessa alchimia ritroviamo non a caso il simbolo aurorale: L’Aurora nascente èil titolo di una ope­ra di Jacob Böhme
  38. M. Eliade, Mefistofele e l’androgine, Roma 1971, p. 24.

(Da ereticamente.net  - tratto dalla rivista La Cittadella, anno I, nuova serie, n. 01, MMDCCLIII a.U.c., con l’espressa autorizzazione dell’autore)