LA MAGIA AVATARICA - Prima parte

Contemporaneamente alla discussione “La Terapeutica di Kremmerz funziona ancora?”, si è svolta sul sito, tramite contatti e risposte privati, una serie di altri dibattiti paralleli, tra i quali in particolare spicca per interesse quello incentrato sulla cosiddetta “Magia Avatarica”. Per contribuire ad un ampliamento dell’argomento e soddisfare le numerose richieste in questo senso, abbiamo affidato al nostro collaboratore “Orpheus” il compito di reperire e riunire testi interessanti e significativi sul tema, proponendoli in questa pagina del sito. Potranno naturalmente essere aggiunti interventi e libere opinioni di chiunque desideri esplicitare il proprio pensiero in proposito e partecipare pubblicamente alla discussione, con il proprio nome o uno pseudonimo, nel totale rispetto della privacy.

 

 

LA MAGIA AVATARICA:

una nota ulteriore per qualche riflessione in più

 

di  Q.A.D.

 

 

-I-

 

Come altri aspetti dell’opera kremmerziana, il tema della Magia Avatarica rimane certamente oscuro, forse insolubile nella sua problematicità, ma, proprio per questo, foriero delle più disparate e astruse teorie, riferite in scritti pseudoepigrafici e tutt’altro che chiarificatori. Nel precedente numero di Elixir (Elixir 1) Amelio, valido e benemerito studioso dell’ermetismo italico, ha certamente avuto il merito di porre l’attenzione sul problema, la cui natura soltanto il Kremmerz forse avrebbe potuto chiarire; in particolare ha avuto il merito di suggerire delle interessanti ipotesi interpretative intorno al contesto in cui il Maestro di Portici possa avere attinto il termine “Avatara”, usandolo, caso unico forse all’interno dei suoi scritti, senza fornire un altro termine o concetto o mito tratto dalla tradizione occidentale. Proprio da questo aspetto, così singolare, prenderanno avvio le prossime riflessioni, tenuto conto dell’avversione che il Kremmerz manifestava nei confronti di tutti coloro che preferivano compiere la “cerca” in teosofie orientali, chiedendosi, in modo assai coerente in tutti i suoi scritti dal 1897 al 1929, Perché è preferibile fare l’indiano coi simboli del Budda, di Brama, o dei Parsi, quando Giove e le deità dell’Olimpo Latino possono tenere onorevolmente il paragone?[1] Facendo nostra questa preziosa indicazione metodologica, verificheremo se nella tradizione occidentale, ellenistica e greco-latina in particolare, sia esistita in maniera più o meno esplicita, una realtà iniziatica cui possa riferirsi ciò che il Kremmerz esprime con l’espressione Magia Avatarica.

Chiarito il nostro intento, è forse opportuno fare alcune considerazioni intorno a quanto esposto in precedenza da Amelio che abbia lo scopo di problematizzare ulteriormente la questione, piuttosto che quello di offrire alternative rigide.

Sebbene la definizione data dal Kremmerz sembri essere univoca, riferendosi in generale all’immissione di un’anima di un individuo in un altro corpo da cui sia stata in precedenza allontanata la propria, sia quella per l’appunto, l’anima di un maestro perfetto o l’essenza di un genio, di un eroe, o di un nume; in realtà quale sia l’ente in transito non è affatto una questione ininfluente e priva di implicazioni determinanti ai nostri fini interpretativi.  Nella sua disamina Amelio ha riferito gli elementi specifici sul tema tratti dalla cultura orientale, soprattutto, ma anche da quella egiziana, in cui risultasse in particolare chiaro il passaggio dell’anima del maestro nel corpo del discepolo, o persino in quello inanimato di animali. In questa analisi ha però obliato due questioni, a nostro avviso fondamentali. Innanzitutto la brevissima nota del Kremmerz sulla Magia Avatarica non nasce come argomento a se stante o come risposta ad una possibile domanda, ma si colloca all’interno di una problematica di più ampio ed importante respiro che attanaglia l’uomo da sempre: esiste un’anima immortale che sopravviva al corpo? E, soprattutto, esiste la prova inconfutabile che il corpo sia solo uno strumento, un veicolo, abbandonato il quale l’esistenza del proprio essere si conserva? Oppure, in termini aristotelici, l’anima è forma del corpo, morto il quale essa non ha più alcuna possibilità d’esistere? A tali domande il Kremmerz risponde dicendo che tutta la vasta gamma di fenomenologie quali la veggenza, la telepatia e persino lo sdoppiamento astrale, non necessitano di altra spiegazione che di una particolare attività del proprio “apparecchio fluidico radiante” che in ultima analisi ha nel sistema nervoso centrale la sua causa e necessità fisica. La prova inconfutabile capace di farci sfuggire all’aristotelica minaccia consisterebbe invece nella possibilità, da parte di un’anima, di cambiare temporaneamente o definitivamente il veicolo fisico, oppure, e questa è la parte a nostro avviso più interessante, la manifestazione in un corpo di un’anima, un’essenza o “presenza” di un genio, di un eroe, di un nume, prova provata dell’esistenza di “intelligenze separate” da qualunque veicolo fisico. È da chiedersi, inoltre, perché il Kremmerz, sempre attento a dare preziose indicazioni, su una questione così delicata e vitale per l’intera “cerca” fornisca come unico esempio “chiarificatore” non il passaggio dell’essenza di un maestro in quella di un suo discepolo, oppure in un animale, ma un apparentemente semplice fenomeno di invasamento in cui, tra l’altro, lo stato di follia permanente sarebbe indice di disequilibrio tra l’ente geniale o numinoso e il corpo ospite.

Prima di procedere oltre sulla scia di questa che a nostro avviso sembra essere l’unica indicazione concreta fornita dal Kremmerz, c’è ancora un aspetto delle fertili considerazioni fatte da Amelio che vorrei problematizzare, suggerendo, così, un ulteriore punto di vista. Fermo restando che l’Aureo Maestro ha sempre sottolineato l’importanza da parte del mago di conoscere tutti gli aspetti della Magia, sia essa bianca, nera o turchina, mi chiedo quanto peso possa avere l’affermazione secondo la quale durante il passaggio nel corpo del discepolo dell’anima del maestro sia solo quest’ultimo ad essere in pericolo di vita, mentre per il primo il tutto sarebbe un’occasione, ghiotta e irripetibile, per conseguire quello sviluppo spirituale altrimenti precluso.

Tre sono le considerazioni possibili. Innanzitutto, pena fraintendimenti pericolosi, capaci di sovvertire l’ordine dei valori, non credo che in un caso simile la vita fisica sia realmente da considerare il bene più grande messo a rischio. Se, infatti, il corpo è solo un veicolo, per un maestro perfetto il suo abbandono non comporta la morte, mentre per il discepolo il tutto rischierebbe di trasformarsi in una sorta di possessione in cui la partecipazione effettiva dell’anima al proprio sviluppo verrebbe meno; personalmente ritengo essere questo il valore più prezioso messo a rischio. In secondo luogo viene la clausola, posta come imprescindibile, della volontarietà da parte del discepolo a subire un simile “transfert”. Sebbene sia vero che in più parti dell’Opera Omnia il Maestro di Portici abbia sempre esortato il discepolo a provare nei confronti della propria guida un sentimento di amore affinché, per induzione, egli beneficiasse delle virtù e delle salutari influenze magistrali, tale indicazione ha sempre avuto lo scopo di fare procedere il neofita in condizioni sicure lungo il primo e più periglioso tratto, dovendosi in un secondo e più traumatico momento necessariamente verificare la separazione. In altre parole non siamo certo di fronte ad un trasferimento animico. Per di più in una nota lettera a Iesboama, Crisogenon e Abeon, in origine riservata, in modo assai esplicito Kremmerz afferma: Ammesso che un uomo si proferisse volontariamente a compiere cosa qualunque con la Maria propria, come avviene tra iniziati e iniziabili, questo praticamente è sempre rifiutabile […]; a noi non è permesso di annullare nessuna volontà libera, neanche degli inferiori volontari […]. Da quanto precede si evince chiaramente che un inferiore volontario che accettasse l’idea di un allontanamento della propria anima, cioè della propria essenza, dovrebbe ricevere un categorico rifiuto da parte del suo superiore, ancor più se Maestro Perfetto. In terzo luogo, secondo quale legge sarebbe possibile “innestare” una crescita per la quale non si sia maturi? Senza volere assurgere ad interprete della volontà degli dei, mi viene però in mente quanto affermato da Giordano Bruno nel Degli eroici furori. Il nolano ammette due generi di “furore”. Il primo è quello determinato dalla divinità stessa, la quale penetra, cioè trasferisce la propria essenza in un uomo qualunque. Questi, per tutto il periodo in cui sarà pieno della grazia divina, avrà dignità massima, compiendo i più grandi prodigi. Quando la divinità si sarà ritirata, quell’uomo ritroverà la miseria o la nobiltà che lo contraddistingueva prima dell’intervento divino per il quale egli era stato solo uno strumento, senza infamia e senza gloria. Senza dilungarmi sull’argomento, il secondo genere di “furore” è invece quello dell’eroe che con le sue sole forze tende al divino, forse senza mai raggiungerlo, ma guadagnandosi briciola per briciola quella dignità che nessuno potrà mai togliergli.

 

-II-

 

Come accennato in precedenza, le presenti note si concentreranno in modo particolare su quel secondo aspetto della Magia Avatarica che è rappresentato dalla possibilità che sia un genio, un eroe o un  nume a sostituire temporaneamente o definitivamente l’anima di un uomo, assumendo come indicazione significativa il riferimento di Kremmerz alla follia sacra, o, per usare un’espressione più adatta, “mania ieratica”.

Premessa indispensabile od ogni ulteriore indagine ritengo debba essere una definizione quanto più precisa di cosa debba intendersi per anima, ovviamente a partire dalle stesse definizioni del maestro di Portici, onde evitare che il discorso sia troppo fumoso o, se si preferisce, troppo etereo. Dice il Kremmerz: È il substrato delle vite anteriori, cioè il nucleo vitale che gli viene dalle umanazioni anteriori, che è la eredità avuta da se stesso[2]… L’anima è l’uomo[3]… L’essere che in te pensa, immagina, ragiona e discute, è il tuo pensiero, cioè il tuo io pensante, cioè l’anima tua[4]

Queste definizioni date da Kremmerz risulteranno essenziali per comprendere cosa debba o possa intendersi per allontanamento temporaneo o definitivo dell’anima umana e soprattutto quali siano le mutazioni di ordine psicologico[5] che ci si deve attendere.

Affondando le nostre indagini nel mondo greco-latino ritengo che sia possibile rinvenire l’equivalente del termine “Avatara” in quello di “Parusia”. Questo termine nasce in seno alla comunità cristiana del II-III secolo d.C.  per indicare il secondo avvento del messia, ma ben presto entrerà a fare parte della terminologia della scuola neoplatonica di Atene, dopo il suo incontro con la teurgia degli Oracoli Caldaici, indicando qui la “presenza” della divinità durante il rito teurgico. Forse l’aspetto più noto della teurgia, cioè dell’arte di “fare gli dèi” consiste nella telestikè, cioè nella facoltà da parte del teurgo, conoscitore dei simboli e delle analogie, di animare per “simpatia” delle statue a scopo divinatorio e anagogico. Come sottolinea Dodds ne I greci e l’irrazionale[6], questa è solo una delle forme in cui si presenta l’attività dell’adepto, forse quella meno importante e che Siriano e Proclo definiscono “teurgia esterna”. Di contro esisterebbe la possibilità da parte del teurgo di accogliere la divinità in seno ad un essere umano, un medium, che in casi eccezionali potrebbe essere il teurgo stesso. Quale debba essere il fine di una tale operazione ci è riferito da Giamblico, il quale in maniera inequivocabile afferma: [Gli dèi] richiamano a loro le loro anime [dei teurghi]; dispensano a queste anime l’unione con loro stessi, abituandole, mentre esse sono ancora incarnate, a staccarsi dal corpo […]. Tutto ciò dimostra che nel loro entusiasmo essi perdono la coscienza di se stessi e che essi non vivono né della vita umana né della vita animale, secondo il senso e la tendenza, ma prendono in cambio un’altra vita divina che li ispira e li possiede completamente[7]. Molteplice è l’interesse del passo riportato. Innanzitutto ai nostri fini risulta essenziale evidenziare come in base alla stessa definizione che il Kremmerz ha dato di anima si possa ammettere che la Parusia medianica sia una legittima e corretta interpretazione della Magia Avatarica. Se infatti l’anima è il complesso delle umanazioni precedenti e al tempo stesso la nostra vita, il nostro pensiero e la nostra volontà, la sua sostituzione con la vita divina rappresenta davvero una chimica meravigliosa che dimostra in maniera inconfutabile la possibilità da parte di un’anima, un’intelligenza, un nume di esistere indipendentemente dal corpo. Inoltre è possibile scorgere quel riferimento alla “graduale proporzionalità” di cui parla il Kremmerz, definita come necessaria affinché il nume penetri nell’uomo senza dissonanza e squilibrio. Importante è altresì il fatto che l’attività dei teurghi, pur richiamando su se stessi le influenze numinose, non ha una azione coatta nei confronti della Parusia medianica. Sarebbero, infatti, gli stessi dèi a decidere se e quando fare compiere all’iniziato l’ultimo passo, concetto questo ulteriormente sottolineato da un successivo passo dello stesso autore: […] l’azione del portare in sé il dio non è umana né ottiene la sua realizzazione completa per mezzo di parti o di azioni umane, ma queste parti stanno a disposizione in modo diverso dall’umano[8]. Il passo testé riportato invita a riflettere sul fatto che non esistono pratiche totalmente umane, che in maniera squisitamente meccanica consentano di violare quelle stesse leggi cui presiedono “Intelligenze distributrici”, tutto ciò, ovviamente, con buona pace dei tecnicismi e dei cacochimici di ogni tempo e latitudine. Secoli più tardi sarà Giordano Bruno che, nell’opera già menzionata, a proposito del secondo genere di furore, ci dirà che l’ultimo passo, cioè quello unitivo, non può essere compiuto senza l’intervento divino.

Continuando la nostra disamina della teurgia medianica emerge chiaramente un interrogativo. È possibile confrontare tali pratiche con quelle di magnetizzazione delle “pupille” e delle “colombe” realizzate dal Cagliostro nel XVIII secolo? Certamente laddove il teurgo utilizzi un medium quale strumento divinatorio, allora il paragone sarebbe confermato da diversi passi dell’opera di Giamblico e di Proclo. In particolare il primo non solo ci dice che il medium dovrebbe essere una giovinetta o anche un giovine, comunque di nobili costumi e di sana costituzione, ma anche che la divinazione dovrebbe avere il fine di ottenere, durante la Parusia del dio, i sacri riti. I rituali di Cagliostro, pubblicati da Marc Haven[9], riferiscono la stessa indicazione; infatti la “colomba” veniva interrogata sia in occasioni particolari, come quella della iniziazione al grado di maestra egiziana, sia per ricevere suggerimenti ed indicazioni dall’angelo su come il rituale stesso dovesse essere modificato o integrato.

Sebbene tali affinità siano forti, se dovessimo ridurre la pratica teurgica di tipo medianico ad un semplice processo di magnetizzazione di una “pupilla”, certamente dovremmo ritenere errate le nostre ipotesi iniziali che nel neoplatonismo del V secolo potessero trovarsi indicazioni chiarificatrici su cosa si debba intendere per Magia Avatarica. Infatti non solo il medium dovrebbe comunque avere una età compresa tra i dodici e i quindici anni circa, ma, cosa più importante, risulterebbe essere pur sempre un elemento passivo e parzialmente incosciente nelle mani di un adepto, unico a dirigere l’esperienza e sicuramente maggior beneficiario. Saremmo veramente molto lontani dal grado apicale di cui parla il Kremmerz.

Una soluzione a questo impasse è data dalla già accennata possibilità, in seno alla stessa teurgia medianica, che sia lo stesso teurgo a ricevere in sé la divinità. Riportiamo di seguito quasi per intero i frammenti del Commento agli Oracoli Caldaici di Proclo, registrati da Psello[10] e che, proprio perché testimonianza di prima mano, potranno forse essere illuminanti: Con questi accorgimenti è necessario che l’evocazione entri in atto e che si verifichi un’ispirazione e un mutamento dell’attività dianoetica. Tuttavia, anche fra questi invasamenti, alcuni hanno luogo con un totale estraniamento dei soggetti posseduti, i quali non sono più per nulla in sé, altri, in modo mirabile, con un mantenimento della coscienza; in quest’ultimo caso l’invasato può sfruttare per se stesso l’evocazione e, accolta l’ispirazione, sapere quali effetti opera, che cosa rivela e come bisogna liberare ciò che imprime il movimento…

Il teurgo, pertanto, che riuscisse ad ospitare in se stesso il dio si troverebbe nella straordinaria condizione di non vivere più la vita umana, ma attraverso un processo unitivo che, in rare occasioni, come conferma Giamblico[11], non è affatto temporaneo o limitato al solo momento rituale, ma definitivo, la vita “una” con il dio.

Secondo un’interpretazione, a nostro avviso corretta, data da Boyancè in un articolo del 1959 pubblicato sulla Revue de l’histoire des religions[12], in questo particolare caso si verrebbe a presentare la terza forma di teurgia, dopo la telestikè e la divinazione attraverso medium, in cui l’atto unitivo avrebbe come ulteriore e conclusivo stadio la trasmutazione ontologica dell’uomo in nume, concetto questo assai vicino a quanto detto dal Kremmerz a proposito della Magia Avatarica: [Essa è] un mezzo sperimentale assoluto che precede di pochi passi il maestrato di terzo grado…

Concedendo alle ipotesi fin qui fatte una possibilità tra tante di corretta interpretazione del problema, credo risulti determinante a questo punto chiarire cosa debba intendersi per “entusiasmo”, quali siano i mezzi per raggiungerlo e di cui si abbia traccia nella tradizione greco-latina.

Ancora una volta ricorreremo alle parole di Giamblico: La cosa più importante è che coloro che sono preda dell’entusiasmo sono posseduti totalmente dal dio, e a questo consegue poi anche l’uscire di sé[13]. Come giustamente sottolinea Claudio Moreschini, nella sua introduzione all’opera giamblichea, il termine “estasi” per il greco ha un significato assai differente rispetto al suo utilizzo in lingua italiana, in cui viene usato per indicare una perdita di sensi in funzione di uno stato contemplativo. Nella realtà greca esso invece indicava «l’uscire da sè» in seguito a processi fisici o psichici; ci si riferiva, in altri termini, a stati alterati di coscienza provocati o dall’assunzione di sostanze psicoattive, o da particolari tecniche di suggestione ipnotica. Anche Proclo utilizza il termine «entusiasmo» come condizione essenziale per la Parusia del divino. Pur senza eccedere nei dettagli il maestro di Atene ci parla di una enigmatica sostanza che, utilizzata come collirio, avrebbe generato stati alterati della vista e della coscienza. Psello riferisce tale pratica agli egiziani ed è proprio egiziano un papiro del III a.C. che riporta un rituale mitriaco in cui si suggerisce l’applicazione di una sostanza sacramentale sugli occhi per la visione di realtà superiori. L’utilizzo di sostanze, per così dire, d’uso esterno non deve trarre in inganno facendo pensare ad una azione più blanda. Sicuramente il livello di coscienza mantenuto è superiore in questo caso rispetto all’ingestione di altri principi psicoattivi, cosa per altro necessaria al teurgo, come abbiamo visto, ma al tempo stesso basterebbe pensare all’unguento delle streghe con cui si spalmavano alcuni punti del corpo particolarmente irrorati di sangue per avere ragione dell’efficacia di un “collirio”.

Vorrei fare qui una piccola digressione temporale riferendo un utilizzo relativamente più recente dei “colliri visionari”, come li definisce Giorgio Samorini[14] in un interessantissimo studio sulla iniziazione Buiti. Uno degli aspetti dell’esperienza che consegue alla somministrazione della Iboga, prima oralmente e poi come collirio, è la conoscenza che l’iniziando fa del “nuovo nome” durante il suo stato alterato di coscienza, nome che nella religione Buiti sarà aggiunto al proprio. Probabilmente si tratta solo di una suggestione, ma mi piace mettere in relazione questo elemento della cultura del Gabon, con il concetto di “nome segreto” della cultura egiziana. Secondo il mito, Iside con un inganno riuscì ad ottenere la conoscenza del nome segreto di Ra. Impastò con del fango un piccolo serpente che successivamente animò. Liberato vicino ai luoghi dove Ra sarebbe passato, il dio venne morso dal rettile soffrendo poi dolori immensi. Appena poté proferire parola disse: Nessuno ha mai sofferto un simile dolore; non è fuoco, eppure il mio cuore brucia, non è acqua, eppure il mio corpo è madido di sudore e percorso da brividi. Accorse Iside la quale gli rivelò che sarebbe guarito se avesse proferito il suo nome segreto. Ra pronuncio tutti i suoi appellativi, senza riuscire però neanche a lenire il dolore. Molto vicino alla morte, con la bava oramai alla bocca, Ra disse che il suo nome segreto era custodito nel suo cuore. Iside allora gli aprì il petto, ne liberò il cuore e ne carpì il segreto. Ra guarì.

I riferimenti sia a stati alterati di coscienza, sia a condizioni limite in cui vi sarebbe il develamento della propria anima (il cuore) e del nome segreto sono fin troppo facili da cogliere. Interessante è poi il fatto che per Proclo i nomi divini, i nomi barbari di potenza, sarebbero noti dal teurgo solo in preda all’entusiasmo.

En passant vorrei offrire un ulteriore parallelismo tra gli insegnamenti di Proclo e quelli di Kremmerz, proprio sull’importanza della parola. Quest’ultimo nel Commentarium afferma che il potere immaginativo è il massimo cui gli isiaci aspirano, mentre più difficile è la conquista del potere creativo attraverso la parola. In modo assai simile Proclo dirà che la teurgia esterna, quella cioè che opera attraverso le “forme” (immagini) simboliche esterne è ben poca cosa rispetto alla teurgia interna in cui il dio rivela i “sacri nomi”. Mi soffermerò più in avanti sulle forti analogie esistenti tra la teurgia neoplatonica di Siriano e di Proclo e gli insegnamenti del Maestro di Portici, giustificando così la mia insistenza sulla scuola di Atene.

Accanto al possibile ricorso a sostanze psicoattive, i Commentari al Fedro di Proclo ci parlano delle quattro forme di Mania attraverso le quali avverrebbe la Parusia. Hermiano riferisce un dialogo che ha per protagonisti proprio Siriano e Proclo; oggetto della discussione è la effettiva capacità della telestikè, della teurgia delle forme, di consentire il processo unitivo. Platone infatti riteneva quella oracolare una forma di mania inferiore rispetto a quella erotica. La soluzione offerta da Siriano e accettata da Proclo fu quella di considerare la “mania erotica” la forma più alta di teurgia, interiore per l’appunto, capace di ricondurre a sé le altre tre. La mania erotica, dunque, realizzerebbe quello stato di estasi, cioè di uscita da sé, capace in ultima analisi di far compiere, attraverso uno stato magnetico, l’atto unitivo vero e proprio. Da quel momento, in qualunque istante della propria vita, l’adepto sarebbe nelle condizioni di padroneggiare, ad esempio, la mania poetica e dire o scrivere, non certo come farebbe un medium scrivente, ciò che è volontà dei numi. Mi viene in mente un suggestivo riferimento che il Kremmerz fa a se stesso in terza persona quando in LA MEDICINA ERMETICA scrive: Bisogna diffonderla come meglio si può e comunicare al signor Prof. CIRO FORMISANO che mi rappresenta con pieni poteri tutti i progetti…

Ancora una questione mi sembra necessario chiarire. Se la vita dell’adepto non è più quella umana dopo il “transfert”, se la sua anima intesa come pensiero, ragione e sublimato di pregresse esperienze è stata sostituita da quella del dio, in quali termini bisogna intendere i suoi atti?

Nella Vita di Proclo, Marino, che succederà al primo nella direzione dell’accademia neoplatonica di Atene, afferma, come premessa ad un intervento miracoloso operato dal suo maestro: […], attendendo a tali occupazioni si procurò una virtù ancora più grande e più perfetta, cioè quella teurgica, e non si fermava più a quella contemplativa, né viveva solo secondo uno dei due caratteri propri degli esseri divini, ossia limitandosi alla attività intellettuale e a tendere alle realtà superiori, ma si prendeva cura ormai anche delle realtà inferiori, secondo un modo che è proprio degli dei e non secondo il modo politico […].

Emerge chiaramente da ciò che dopo aver tentato la scalata dell’Olimpo Latino e averne conquistate le vette, si partecipa a pieno titolo della vita dei numi, cioè non si ha più come fine quello della conoscenza intellettuale ed unitiva dei piani superiori, ma anche quella di partecipare attivamente alla loro cura delle realtà inferiori. Forse il passo citato potrebbe meglio chiarire quanto affermato da Ottaviano nel Commentarium e da Kremmerz nello stesso scritto in cui parla della Magia Avatarica. Ottaviano sostiene che la Conoscenza iniziatica è patrimonio di pochi per il dominio sui molti e con parole più esplicite il Kremmerz: Noi non dobbiamo rompere la diga che ci separa dal comune degli uomini, se non nei casi in cui il Potere Divino ce ne dà il diritto e ce ne fa sentire il dovere, come nelle grandi convulsioni sociali che sono crisi di salute se volute dalla Giustizia delle cose universali o sono trionfi momentanei della plebe ingorda se nemiche del concetto puro di giustizia. Raggiungere il Dominio significa acquisire una possibilità di signoria, ossia una possibilità di governo che per l’adepto è sempre e solo applicazione della legge divina secondo la volontà divina.

Prima di passare alla terza parte in cui metterò a confronto gli insegnamenti di Kremmerz con quelli di Proclo, credo doveroso concludere l’argomento con un AVVISO AGLI IMPRUDENTI. Il Maestro di Portici, nelle brevi note sulla Magia Avatarica, oltre a dare un suggerimento dà anche un monito quando parla della follia sacra, in cui però l’anima del nume è in squilibrio rispetto al corpo ospite e al precedente inquilino. Nei suoi Commentari agli Oracoli Caldaici Proclo dice in maniera ancora più esplicita: Bisogna eliminare preventivamente tutto ciò che può essere di ostacolo alla venuta degli dèi[15] […]. Alle parusie degli dèi spesso si accompagna il movimento di spiriti materiali, la cui presenza e il cui moto piuttosto violento non sono sopportati dai medium più deboli. È evidente che senza una preventiva purificazione la cui durata può estendersi per più vite, gli spiriti materiali presenti dentro di noi si agiterebbero a tal punto da condurci alla pazzia. Non è l’energia della divinità a creare nocumento, o almeno questo si evince dal passo riportato, ma quegli elementi di disturbo insiti come sedimentazioni nella nostra realtà umana, che resistono con tutta la forza dell’attaccamento alla “vita”, per l’appunto, alla propria individualità, rifiutando ed impedendo ogni processo di indiazione.

 

                                                                                             

-III-

 

 

L’ultima parte del presente contributo, non certo esaustivo, sulla Magia Avatarica, è destinata ad evidenziare quegli aspetti della tradizione neoplatonica, con particolare riferimento agli scritti di Giamblico e di Proclo, e degli Oracoli Caldaici che maggiormente possono essere accostati all’ermetismo kremmerziano e dai quali è possibile congetturare un significato più squisitamente mediterraneo di Magia Avatarica.

Una premessa riguarda il nome stesso di Giuliano assunto da Ciro Formisano come parte del suo ieronimo. Fatta eccezione per un breve riferimento al significato “etimologico” che egli stesso fornisce e cioè quello di “lanugine”, con esplicito riferimento al simbolismo maschile, attivo e solare dell’ariete, in realtà non possiamo sapere se, come taluni vorrebbero, il nome sia stato preso riferendosi a Giuliano l’Apostata, se, invece, sia semplicemente da ricercare nell’etimo stesso, o altrove. In questa sede avanzeremo l’ipotesi che sia invece da riconnettersi a due “Giuliani”, padre e figlio, rispettivamente Giuliano il Caldeo e Giuliano il Teurgo. Il primo si ritiene sia stato l’autore degli Oracoli Caldaici, opera composta nel secondo secolo d. C., pervenutaci in maniera frammentaria, contenente preziosi insegnamenti non solo di natura cosmologica ma anche anagogica.

In accordo con le testimonianze stesse dei maestri della scuola neoplatonica di Atene e secondo la più recente interpretazione storiografica, il termine “Teurgia” fu coniato proprio da Giuliano il Teurgo, il quale avrebbe composto diverse opere, purtroppo andate perdute, ma testimoniateci da Proclo, nelle quali sarebbero state spiegate le tecniche teurgiche ed iniziatiche della telestiké e della purificazione.

La nostra ipotesi è confortata da due indizi. Il primo ci è fornito da quanto il Kremmerz stesso dice sul termine “caldeo”. Nell’Avviamento alla Scienza dei Magi egli sostiene che, nel mondo classico, “caldeo” era sinonimo di Mago, cioè di colui che era partecipe della sapienza dei magi. Come sottolinea Hans Lewy[16]in una brevissima nota sullo stesso termine, fino al periodo precedente alla stesura degli Oracoli Caldaici, esso indicava in generale il sacerdote babilonese e, talvolta, persino i ciarlatani indovini; dal II sec. d. C., periodo in cui furono scritti gli Oracula, e in seguito alla loro stessa diffusione, invece, “caldeo” acquisì sempre più il significato di conoscitore delle “cose divine”. A questo “indizio” se ne aggiunge uno ulteriore consistente nel fatto che, come è noto ai più, il rito neomeniale o di novilunio prescritto dal Kremmerz era altresì chiamato “rito giuliano”. Secondo la testimonianza di Marino riferita nella sua già citata Vita di Proclo[17] il filosofo e teurgo greco, conduceva le pratiche purificatorie e teurgiche in accordo con l’insegnamento tratto da Giuliano il Teurgo; tra le pratiche destinate alla purificazione di notevole interesse erano quelle relative al digiuno, alle abluzioni e alle celebrazioni del novilunio[18], oltre a quelle destinate a purificare gli ambienti tramite lavande con acqua marina e fumigazioni a base di zolfo[19].

Un accostamento, a primo acchito forzato, ma che, se sfrondato dalle componenti squisitamente filosofiche, finisce per essere del tutto legittimo, è quello tra ochema pneuma e fantasia, da un lato, e corpo lunare, dall’altro.

Con l’espressione ochema pneuma si indica letteralmente il “veicolo dell’anima”. Secondo la dottrina platonica contenuta nel Fedone, nel Fedro e nella Repubblica, lo spirito, durante la sua “discesa” nel mondo della materia, si rivestirebbe progressivamente di un veicolo che nella dottrina neoplatonica, da Plotino a Porfirio, Giamblico e Proclo, acquisirà sempre più i caratteri di ciò che modernamente chiameremmo “perispirito”, corpo fluidico, corpo astrale.

Sebbene a prima vista l’ochema pneuma non mostri immediate affinità con il corpo lunare di cui parla Kremmerz, queste emergono chiaramente se si tiene conto non tanto della funzione mediatrice tra spirito e corpo, quanto della funzione medianica, nel senso teurgico ovviamente, dell’ochema.

Dando come possibili le nostre ipotesi intorno alla natura della Magia Avatarica, stabilito che con tale espressione possa intendersi quella forma di teurgia medianica di cui parla Proclo, in cui lo stesso teurgo è colto da “entusiasmo”, da “mania”, divenendo veicolo per la parusia della divinità, resta da chiedersi quale sia l’organo deputato ad una simile osmosi. A tal proposito Giamblico risulta estremamente chiaro quando afferma che la facoltà che consente di cogliere i segni delle verità espresse dagli dei è la fantasia e che il suo “organo” è proprio l’ochema pneuma. In altri termini, per Giamblico e Proclo i riti teurgici potevano procurare la parusia della divinità solo attraverso specifiche funzioni della facoltà “figurativa”, o immaginativa, e del veicolo dell’anima.

Ma cosa occorre affinché quest’ultimo colga le impressioni e le immagini concesse dagli dei? Non sorprenderà il fatto che la conditio sine qua non risulti essere proprio un certo grado di “separazione” del veicolo dell’anima, o del corpo lunare secondo la terminologia kremmerziana, dal corpo fisico: Infatti le formule dell’arte ieratica fanno questo, esse separano le anime dai corpi, da una parte mettendo attorno ai corpi una protezione in modo che essi non svaniscano, dall’altra fornendo alle anime la maniera di agire indipendentemente dai corpi e di essere sciolte dai legami fisici[20]. In altra sede il Kremmerz dice che la comprensione dei “segni” e l’intuizione delle verità ermetiche procede nella misura in cui il corpo lunare risulti essere sempre più insensibile alle sollecitazioni del corpo fisico, di modo che, totalmente proteso in uno slancio ascendente, potremmo dire cioè colto da “mania”, senta la voce dei “corpi” o mondi superiori: nel silenzio, quando tutto tace, il nume parla. Che il Kremmerz assegni questa importantissima funzione al corpo lunare si evince chiaramente dalla già citata Lettera a Crisogenon, Abeon e Jesboama: Più l’uomo è progredito, più il primo elemento può risalire al mondo delle cause, centro passivo universale, mondo dei poteri (perché ottiene quello che vuole) e mondo di luce (perché può sapere ed apprendere tutto). […] La nostra Maria […] corre al mondo delle cause e si abbevera nella luce di Miriam, dove convengono tutte le Marie universali.

Dalla attenta lettura delle opere di Giamblico e di Proclo, però, apprendiamo qualcosa di ancora più significativo. Per entrambi i filosofi-teurghi l’ochema pneuma e la fantasia[21], cioè il potere immaginativo di cui parla il Kremmerz, coinciderebbero e, per ciò stesso, il veicolo dell’anima non avrebbe solo una funzione medianica, per così dire passiva, bensì anche la capacità di esercitare una azione diretta nel mondo soprannaturale: Se purificato adeguatamente attraverso il rituale teurgico, esso avvicina l’uomo alla divinità e lo rende capace di compiere azioni soprannaturali come la divinazione, l’entusiasmo, ecc.[22]

Come si evince dal passo riportato, l’ochema e la fantasia hanno facoltà di agire attivamente, proprio perché responsabili diretti dell’”entusiasmo”, cioè di quegli stati alterati di coscienza determinati dalla mania erotica, dall’utilizzo di sostanze psicoattive, o da altro. In altri termini, nessuna esperienza teurgica, tanto meno la parusia della divinità, sarebbe possibile senza il concorso, libero dai legami del mondo hylico, del veicolo dell’anima.

Vorrei sottolineare un altro passaggio delle opere di Proclo, prima di procedere oltre: Infatti, mentre il dio partecipato rimane identico, l’intelligenza vi partecipa in un modo, l’anima intellettiva in un altro, l’immaginazione in un altro ancora: l’intelligenza in modo indivisibile, l’anima in maniera discorsiva, l’immaginazione in maniera figurativa, la sensazione mediante una passione[23]. È indicativo che sia proprio la terza forma di conoscenza, nell’ordine, quella deputata alla realizzazione dell’osmosi teurgica: né l’intelligenza solare (indivisibile), né l’anima mercuriale (discorsiva), bensì l’immaginazione lunare (figurativa)…

In questa disamina, ovviamente non possono mancare alcune considerazioni intorno agli Oracoli Caldaici, fonte certa delle conoscenze teurgiche di Proclo e Giamblico. In particolare ritengo sia indispensabile fare alcuni riferimenti alla figura di Hekàte, divinità “oracolare” al pari di Apollo, Anima Mundi negli Oracula. È evidente che in questa sede cercheremo laddove possibile di accostarla alla Miriam Universale di cui parla il Kremmerz, facendo particolare riferimento al passo riportato poco sopra della Lettera a Crisogenon, Abeon e Jesboama: Come una membrana noetica che funge da cintura, Hekàte discerne il primo dal secondo fuoco che anelano a confondersi[24]. Operante, elargisce il fuoco che dona vita e colma il grembo fecondo di Hekàte[25]. In verità è Rhéa la fonte e il flusso dei beati noetici: è lei, la prima in potenza, che nel suo grembo ha accolto la scaturigine di tutte le cose, e circolando l’effonde su tutto[26].

Da quanto emerge, Hekàte divide il Fuoco Increato da quello creato, di modo che il secondo non possa conoscere il primo se non attraverso lei. Hekàte, quindi, è fonte sia di conoscenza che di potere. Infatti, da un lato essa contiene in sé le idee archetipiche che la Verità suprema e primigenia avrebbe posto in lei, in quanto “utero cosmico”, per generare l’intero universo. D’altro canto, però, poiché ella è ingravidata dal “fuoco”, anche il fuoco creato, quindi anche quello suscitato dal teurgo, è lecito ritenere che abbia la possibilità di procreare; del resto la capacità, da parte dell’adepto, di “costringere” Hekàte ad apparire è testimoniata all’interno degli stessi Oracula: Ascoltami, anche se non vorrei parlare, poiché a forza mi incatenasti. Per quale motivo dall’etere che sempre scorre evocasti me, la dea Hekàte, così, con costrizioni che domano gli dei?[27] Sappiamo inoltre, grazie alla testimonianza che Marino ci da nella sua Vita di Proclo, che il maestro della scuola neoplatonica di Atene riuscì ad ottenere la manifestazione di Hekàte sotto la forma più consueta, nelle descrizioni intorno al medesimo soggetto, di Luminescenza. Per l’importanza data a tale esperienza e in relazione soprattutto all’acquisizione da parte di Proclo della possibilità di occuparsi delle cose dei mortali secondo la maniera degli dei, ritengo non sia affatto peregrina l’ipotesi che in ciò si configuri una sorta di rito di passaggio dall’iniziazione all’adeptato[28].

La figura di Hekàte risulta interessante anche per ulteriori “suggestioni”. Un frammento riportato da Porfirio e ricollegabile alla stessa tradizione degli Oracula afferma: tra gli dei immortali Hekàte non disse mai ai saggi profeti degli dei alcunché di vano o inconcludente; ma discendendo dal dominio del Padre dall’onnipotente Intelletto, ella è sempre irraggiata dalla Verità e presso di lei sta la Comprensione[29]. Riferisco il commento del prof. Lewy: Hekàte proclama di essere “irradiata dalla Verità” e che la “Comprensione” le sta vicino. […] In accordo con la credenza popolare adottata dai Caldei Hekàte è la signora della luna; conseguentemente riceve la luce dall’Onniveggente Sole-Apollo. […] La “Comprensione” che sta vicino alla luna deve indicare la facoltà spirituale del pianeta Mercurio-Hermes[30], pianeta che, nella visione caldea del cielo astronomico, sta tra i primi due. Lewy ritiene che la propria interpretazione cosmologica si infranga, in realtà, perché in questi, che egli stesso definisce “Nuovi Oracoli”, non si fa menzione alcuna del pianeta Venere. Facendoci trasportare dalla fantasia potremmo forse affermare che la Verità-Apollo sia assimilabile al corpo solare, la Comprensione-Hermes al corpo mercuriale, Hekàte-Luna al corpo lunare e il mondo Hylico al corpo saturniano. Certamente al di là delle suggestive quanto improbabili analogie, è da sottolineare la necessaria continuità, senza soluzione alcuna, esistente tra gli stati di coscienza della nostra psiche, il microcosmo, e i diversi stati di manifestazione del macrocosmo, cioè i differenti gradi di inveramento della Legge Una del Grande Vivente. D’altra parte, affinché si compia il miracolo di una cosa sola …

Vorrei esaurire il presente contributo, accennando ad un tema che meriterebbe di certo uno studio a parte. Eros, dio dell’Amore, è stato più volte dileggiato e mal compreso, trattato come compagno di avventure o, peggio ancora, come vile inserviente… Un breve riferimento ai significati attribuitigli da Platone non sarà certo estraneo alle riflessioni fin’ora condotte intorno al tema della Magia Avatarica, considerando il fatto che la mania erotica, per i maestri del neoplatonismo (fino a Dante e Ficino), fu la più alta tra le quattro forme di manikoi.

Nel Simposio, dopo che ogni commensale ha avuto la possibilità di esprimere la propria teoria intorno alla natura di Eros, Platone, per bocca di Socrate, ci rivela una “dottrina”, quasi misterica, che fa di Amore un demone “mediatore”[31]. Secondo il racconto offertoci, Diotima, sacerdotessa esperta nelle cose d’amore, introduce Socrate, o forse è più corretto dire che lo inizia, ai misteri relativi a quello che solo erroneamente, ci dice, può essere definito un dio. Senza dilungarci troppo, in sintesi l’insegnamento di Diotima è il seguente: il giovane impara presto ad amare il singolo corpo bello, poi tutti i corpi belli, fino a quando intuisce una “bellezza” da essi condivisa; da quel momento, se è destinato ad un simile salto (ecco la componente misterica), ha la possibilità di cogliere la “Bellezza in sé”, quell’idealità di perfezione e armonia sempre unita a quella di “Sommo Bene”. Eros, dunque, assurge a quella funzione demonica capace di riconnettere il relativo e transeunte all’Assoluto ed Eterno.

Frequentemente, nel linguaggio ordinario si afferma di essere in preda ad un “amore” confondendo quest’ultimo con il destinatario delle nostre attenzioni. In realtà, l’oggetto del nostro desiderio crea in noi un’affezione distinta dall’Eros. Diotima ci insegna che quest’ultimo, demone perché né bello né brutto, né immortale, né morto mai definitivamente, è una virtus compresente all’oggetto dei nostri desideri, ma non ad esso direttamente legato. Infatti non è tanto l’amato che gioca un ruolo rilevante, bensì il fantasma che si agita all’interno dell’anima, o meglio sarebbe dell’ochema pneuma dell’amante, secondo una dottrina propria dell’Accademia Platonica di Firenze, riferita da Ficino nel suo commento al Simposio: L’amante scolpisce nella propria anima la figura dell’amato. In tal guisa l’anima dell’amante diventa lo specchio in cui riluce l’immagine dell’amato[32]. Per le presenti riflessioni intorno al problema della teurgia e della Magia Avatarica può essere di estremo interesse il commento fatto a questo passo da Ioan Couliano[33]: Ciò comporta una dialettica d’amore alquanto complessa, nella quale l’oggetto si trasforma in soggetto spodestando completamente il soggetto stesso il quale, nell’angoscia di essere annientato col venire privato della propria condizione di soggetto, reclama disperatamente il diritto ad una forma di esistenza.

Il fantasma che monopolizza le attività dell’anima è l’immagine di un oggetto. Ora, l’uomo essendo anima, e questa essendo totalmente occupata da un fantasma, quest’ultimo è ormai l’anima. […] Metaforicamente si può dunque dire che il soggetto si è trasformato nell’oggetto del suo amore[34].

Le importanti implicazioni sono evidenti e le analogie con quanto affermato da Kremmerz sono palesi, sia in riferimento alla massima da lui offerta ne L’Avviamento alla Scienza dei Magi, secondo la quale per conoscere una cosa bisogna essere la cosa stessa, sia in riferimento alla “sostituzione” di anima di cui parla in relazione alla Magia Avatarica, oggetto da cui siamo partiti. Molte altre, comunque, sarebbero le osservazioni e le riflessioni da fare.

Eros acquisisce così una veste sacrale, ribadita ulteriormente da Platone nel Fedro, opera nella quale viene invocato non più come demone ma come dio; Socrate arriva a sentenziare che l’amore è inviato dagli dei all’innamorato e all’amato non per loro vantaggio [degli dei, ndr]. Questa specie di mania è la più grande fortuna concessa dagli dei. Gli Omerici […] dicono così: Gli uomini lo chiamarono Amore che vola, / Alato gli dei, perché fa crescere le ali[35]. La funzione, poi, di connessione tra le cose è energicamente sottolineata negli Oracoli Caldaici: […] mescolando scintilla d’anima alle due concordi essenze, il nous e il ceno divino[36], per terzo aggiunse ad esse Eros nella sua purezza, vincolo venerando di tutte le cose, che tutte doma[37]. In altri termini, la mania erotica è in grado di attirare la divinità perché ella stessa ha infuso Eros nel mondo come forza “coesiva”. Ciò è efficacemente descritto da Leonard George in un suo articolo pubblicato su “Lapis”: Il massimo grado di relazione possibile – con persone, demoni o divinità – è basata sull’abilità di amare […]. Questo è il gioco dell’Uno e del Due. […] uno strumento psicologico che ci aiuta a relazionarci pienamente – cioè Eroticamente – con le forze della creazione[38]. È evidente l’analogia con l’insegnamento kremmerziano secondo il quale i geni vanno avvicinati tramite l’amore…

Dopo quest’ulteriore disamina delle opere e delle conoscenze lasciateci dai Prischi Padri, possiamo certamente trarre delle conclusioni importanti sul concetto di Magia Avatarica. Questa non si configura, come hanno creduto i più, persino studiosi accreditati e valenti, in una forma di possessione più o meno ricercata e consentita, la cui sola idea, come abbiamo visto, il Kremmerz stesso condannava. La Magia Avatarica risulterebbe, invece, la più alta e raffinata forma di teurgia che il mondo ellenistico conobbe mai e che non conduce ad altro (scusate se è poco!) che ad una evoluzione e progresso della nostra consapevolezza e conoscenza della Legge Una. Affinché tale traguardo sia raggiunto, d’altra parte, è necessaria la separazione del veicolo dell’anima dal corpo fisico; in altri termini, bisogna autenticamente conseguire il “separando lunare” che, da quanto è chiaramente emerso, non consiste certo nell’acquisizione di fantasiosi “poteri”, di incredibili prestazioni fisiche o di… inspiegabili obesità. L’ochema pneuma, separandosi, libera, per così dire, la fantasia dai lacci del corpo fisico, consentendo a tale facoltà conoscitiva di cogliere i segni, sotto forma di immagini mentali o persino di signatura rerum, che dai piani ulteriori si sarà in grado di ricevere. Il “separando lunare” è, pertanto, l’espressione di un potere immaginativo capace di farci trascendere il corpo saturniano, attraverso una evoluzione della nostra coscienza o, meglio, degli stati di coscienza che ci sono propri, in una tensione continua verso il divino. In ciò, d’altra parte, andrebbe ricercato il significato autentico dei presunti “separandi successivi” e non certo nella condizione “divina” di chi resuscita i morti, cammina sulle acque e magari… prende il thè tra le nuvole. Non dobbiamo mai smettere di usare la “saliera” del buon senso italico, come affermava Kremmerz nei Dialoghi sull’ermetismo, poiché, a dispetto di tutte le sovrumane speranze[39], fin tanto che continueremo a vivere nel saturnio saremo vincolati dalle necessità fisiche. Inoltre, il veicolo dell’anima, cioè il corpo lunare, sarà sempre l’unico vero filtro ed interprete delle conoscenze acquisite dal mondo delle cause, come ci siamo più volti sforzati di evidenziare in questa parte del presente contributo. Chiunque aspiri ad un “separando solare”, in cui il sole agisca direttamente sul corpo fisico, si pone nelle condizioni di chi prega che il cielo si apra e compaia l’Assoluto, Dio, immemore, purtroppo, per imposta cecità bi-millenaria, del fatto che i Prischi Padri ci insegnavano che le preghiere agli dei impassibili e le volontà di questi per gli uomini erano veicolati dai demoni…

Diceva Graziano Curci: Tutto è nel lunare.

 

                                                                                            

Qui Artem Discit

 

 

 

(Tratto dalla rivista ELIXIR, con il permesso delle Edizioni Rebis)

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 



[1] Introduzione ai DIALOGHI SULL’ERMETISMO, Cannes, marzo 1929.

[2] Giuliano Kremmerz, La Scienza dei Magi, Roma, 1984, vol. III, p. 233.

[3] Ibidem, vol. I, p. 5.

[4] Ibidem, vol. III, p. 644.

[5] La psicologia è da sempre scienza dell’anima, senza per questo escludere gli strumenti dell’analisi sperimentale.

[6] Eric Dodds, I greci e l’irrazionale, Firenze, 1997, pp. 335-369.

[7] Giamblico, I misteri degli egiziani, a cura di Claudio Moreschini, Milano 2003, p.201.

[8] Ibidem, p. 207.

[9] Marc Haven (a cura di), Rituel de la maçonnerie Egyptienne, Nizza, 1948.

[10] Psello, Accusa di Michele Cerulario di fronte al sinodo, in Edouard des Plances, Oracles chaldaïques : avec un choix de commentaires anciens, Parigi, 1971, pp. 219-220.

[11] Giamblico, op. cit., pp. 362-363.

[12] P. Boyancè, Teurgie et tèlestique neoplatonicienne, in «Revue de l’histoire des religions», Parigi, 1955, pp. 190-191.

[13] Giamblico, op. cit., p. 207.

[14] Giorgio Samorini, The Buiti religion and the psycoactive plant Thabernanthe Iboga, in «Integration» n. 5, 1995, pp. 105-114 e Colliri visionari, in «Eleusis» n. 5, 1996, pp. 27-32.

[15] Siriano definisce la purificazione come eliminazione di tutte quelle sovrastrutture e sedimentazioni estranee alla vera essenza dell’anima umana.

[16] Hans Lewy, Chaldean oracles and theurgy; mysticism, magic and Platonism in the later Roman Empire, Il Cairo, 1971, p. 425-427.

[17] Marino di Neapoli, Vita di Proclo, in «I MANUALI», a cura di Chiara Faraggiana di Sarzana, Milano, 1985, pp. 308-319.

[18] In realtà esiste anche una differenza tra il rito miriamico e quello praticato da Proclo. Quest’ultimo, infatti, cominciava il digiuno il giorno prima della fase, estendendolo unitamente alle pratiche cerimoniali fino all’intero novilunio.

[19] È prescritto dal Kremmerz ne L’Avviamento alla Scienza dei Magi, in occasione delle istruzioni per il rito del Sagittario, che gli ambienti in cui fossero entrati profani venisse purificato bruciando zolfo e lavando il pavimento con acqua di mare.

[20] Proclo, In Rempublica, II 119, 5-9.

[21] Questa apparente riduzione, se da un lato può apparire semplicistica, dall’altro ha il vantaggio di rendere meno fumosi o eterei, come detto in precedenza, il concetto di veicolo dell’anima, altrimenti ancor più difficile da cogliere di quello stesso di anima. D’altronde, quando il Kremmerz parla dei corpi solare, mercuriale, lunare o saturnio, non si può prescindere dal riferimento a stati di coscienza diversi, frutto di una sublimazione l’uno dell’altro.

[22] Maria Di Pasquale Barbanti, Ochema-pneuma e phantasia nel neoplatonismo, Catania, 1998, p. 267.

[23] Proclo, In Rempublica, I, 111, 20-23.

[24] Oracoli Caldaici, frammento 6.

[25] Ibidem, frammento 32.

[26] Ibidem, frammento 56, 1-3. Qui Hekàte e Rhéa svolgono la medesima funzione, sebbene Kroll  ritenga che alla prima possano essere date le valenze Mercuriali e lunari (cfr.: Kroll W., De Oraculis Chaldaicis, in «Breslauer Philologische Abhandlunger», vol.. VII, Breslau, 1894) tipiche dell’Anima Mundi, mentre alla seconda quelle proprie della madre di ogni cosa. Cfr. Angelo Tonelli (a cura di), Oracoli Caldaici, Milano, 2002, p. 271-272.

[27] Ibidem, frammenti 189-190.

[28] Ciò troverebbe conferma anche nell’Inno rivolto ad Hekàte e Giano, composto da Proclo, in cui questi si rivolge alla dea chiamandola “Custode delle porte”.

[29] Eusebio, De evangelica praeperatione, V, 71.

[30] Hans Lewy, op. cit., p. 49.

[31] Cfr.., Giovanni Reale, Eros, demone mediatore, Roma, 1960.

[32] VI, 6.

[33] Docente di storia all’Università di Groninga, storico delle religioni, scomparso da pochi anni.

[34] Ioan P. Couliano, Eros e magia nel Rinascimento, Milano, 1987, p. 56.

[35] Platone, Fedro, 245b, 252b. L’autore degli ultimi versi è con ogni probabilità Platone stesso.

[36] Secondo la storiografia più recente, l’anima umana risulterebbe composta da una scintilla dell’anima cosmica (Hekàte) mescolata a porzioni di intelletto e volontà divina

[37] Oracoli Caldaici, 44, 1-3.

[38] Leonard George, BETWEEN EROS AND ANTEROS: The teachings of Iamblicus, «Lapis», 13, 2001.

[39] Così si esprimeva Nietzche in Ecce Homo.

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