RICCIARDO RICCIARDELLI, IL BARONE MAGO

DI PIERO FENILI

 

Quando si accenna al barone Ricciardo Ricciardelli il pensiero delle persone non meglio informate corre soltanto al famoso “processo del mago”, una malinconica e vagamente allucinante vicenda giudiziaria, che vide protagonisti un nipote del Kremmerz, in veste di imputato del reato di circonvenzione di persone incapaci ed il citato barone in qualità di persona offesa.

Il processo, celebrato innanzi al Tribunale di Roma e concluso con la condanna del nipote del Kremmerz, fece un certo scalpore, tanto da fornire l'occasione alla pubblicazio­ne di un libro dal titolo omonimo, composto raccogliendo la requisitoria del pubblico ministero e le arringhe degli avvo­cati della difesa e di parte civile.

Questo era quanto si sapeva comunemente del barone, finché i nostri valorosi Giuseppe Maddalena Capiferro e Cristian Guz­zo hanno fatto maggior luce sul personaggio con una diligente ricerca alla quale rinvio[1].

Tale il punto della situazione, il ritratto per così dire "ufficiale" che tratteggia con i suoi chiaroscuri (all'apparen­za più scuri che chiari) la complessa figura del barone.

Mi rendo conto, quindi, che il lettore resterà un poco stupito del fatto che io fornisca un’ immagine del barone tutt'altro che in linea con il suo "ritratto" ufficiale ed anzi, per qualche verso, in stridente contrasto con esso.

Mi parlò per primo del barone, sulla metà degli anni Sessanta, l'amico Placido Procesi, con accenti nei quali simpatia, conside­razione e cautela entravano con eguale dosaggio. Il personaggio andava comunque preso sul serio: non era certo un caso che il Kremmerz, esule volontario a Beausoleil, lo avesse ripetutamente ricevuto intrattenendosi con lui, quasi da pari a pari, su alcuni temi cruciali della filosofia ermetica.

Di una di queste importanti discussioni è rimasta una consi­stente traccia in un articolo di Marco Daffi (era questa la trascrizione italianizzata del suo nome antico Mőrkőhekdaph) intitolato Gli avatars, apparso postumo sul nr.32 del bimestrale "Kemi-Hathor", del febbraio 1988.

In esso il barone riferiva di una conversazione avuta sull'ar­gomento con il Kremmerz, del quale riportava il pensiero esponen­do quindi le ragioni del suo dissenso, non sappiamo se espresso contestualmente al Kremmerz; e comunque formulando al riguardo una propria teoria, che svilupperà poi nei successivi numeri 33 e 34 della stessa rivista.

Un personaggio, come si vede, da prendersi tutt'altro che sot­togamba, come suol dirsi. Ed io mi guardai bene dal commettere questo errore quando, qualche tempo dopo, ebbi la ventura di fa­re la sua conoscenza.

Se la memoria non mi inganna, ciò avvenne a casa del genera­le Nulli Augusti, a Roma, nei pressi di piazza Ungheria, in uno dei salotti culturali più eletti della Capitale, ove si poteva conversare al meglio di argomenti di natura spiritualistica. Mol­ti anni dopo ed in tutt'altre circostanze, conobbi in Francia il visconte de Cressac-Bachelerie, redattore di una rivista di metapsichica di buon livello, apprendendo che anche lui era venuto in contatto con il gruppo di persone che si riuniva in quel salotto romano.

Il barone Ricciardelli, ovvero don Ricciardo, come lo chia­mavano confidenzialmente i suoi amici, mi fece l'impressione di un uomo interessante, gioviale, del tutto alieno da pose, per così dire, "ierofantiche". Notai qualche tempo dopo, cenando insieme in un ristorante, che era una buona forchetta e condivi­deva, per dessert, la mia preferenza di allora per le fragole con la panna.

La sua conversazione era avvincente e "diversa". Quell'uomo mostrava di abitare in una dimensione magica. Si avvertiva chia­ramente che camminava su questa terra per sbaglio o per condanna. Se fosse stato dotato del raro equilibrio di un vero Maestro a­vrei detto: per missione.

Certamente l'esistenza ordinaria, con le sue petulanti i­stanze concrete, i feroci imperativi animaleschi della struggle for life ed il corteo di ipocrite finzioni con cui si mascherano nella cosiddetta società civile, non aveva alcuna presa su di lui.

Condivido pienamente quello che il barone volle dire de­scrivendo se stesso: "persona inesistente...perchè essere astrat­to; perchè appartenente al mondo delle visioni, delle magie, del­le reincarnazioni, a quel mondo che si abbarbica nei campi ospitali del subconscio e che non si tratta di persona fisica, perchè è entità del mondo invisíbile"[2].

Bastava il minimo pretesto offerto dalla conversazione ed ecco che il barone volava in un'altra dimensione, della quale e­vocava le leggi insospettate e le prospettive inaudite.

Mi offrì una volta di recarci insieme, di notte, presso un crocevia campestre lungo la via che conduce ai Colli Albani, perchè colà aveva dimora un Genio. Aggiunse che teneva accurata­mente segreta tale ubicazione, perchè non voleva che qualche indegno si recasse sul luogo per "sporcificarlo" (così disse te­stualmente). Non avrebbe certo immaginato a quali e quante "sporcificazioni" avremmo dovuto assistere negli anni successivi alla sua scomparsa.

Su alcuni punti, emersi per la verità più dai suoi scritti che dalle sue parole, mi tenevo sulla difensiva. Non condivi­devo, da irriducibile platonico che si riconosce soltanto nell' Iperuranio, ad di fuori dello spazio e del tempo, alcune sue fughe in  avanti nello spazio (verso la nebulosa di Andromeda) o indietro nel tempo (in Atlantide). Ma devo dire che il suo discorso pre­sentava, in genere, un buon impianto razionale e culturale, senza scivolare in un disordinato ed incontrollabile visionarismo. Sapeva affrontare gli argomenti che gli venivano proposti con lo­gica ed attenzione.

Presso la biblioteca dell'Accademia Tiberina di Roma dovreb­be esserci ancora qualche copia in dispense di una sua opera sul Jainismo, forse materia di qualche corso da lui tenuto presso tale rispet­tabile sodalizio. Un'opera di tutto riguardo.

Del resto, se don Ricciardo fosse stato soltanto un occul­tista farneticante, non avrebbe potuto godere del rispetto e delle considerazioni di persone dotate di vigile senso criti­co, quali l'avvocato Giammaria Gonella, il professore Luciano Raffaele di Santadomenica ed il medico Aleandro Tommasi, che ebbe­ro la ventura di poterlo frequentare più a lungo di quanto la sua imminente dipartita avrebbe concesso a me.

Mi aveva preso a benvolere e così decise, bontà sua, di inda­gare sulle mie precedenti incarnazioni come usava, mi disse, nell’ altissima Scuola di Magia cui appartenne il Kremmerz, per vaglia­re l'idoneità di chi aspirava ad essere affiliato a tale arcano consesso.

Ricordo che, dopo che si era assunto tale compito, lo incont­rai all'uscita da una conferenza ed egli agitò verso dí me il suo bastone da passeggio in segno di saluto, dicendo: "dottor Fenili, la sto pensando, la sto pensando...".

Finché, dopo qualche tempo, mi convocò al Caffé Fassi, all'inizio di Corso d'Italia, presso piazza Fiume, un gioiello della Roma umbertina, miracolosamente sopravvissuto (ancora per poco) alla volgarità dei tempi, con il suo ampio salone ornato di imponenti specchiere, i tavoli in ferro battuto con il pianale in marmo ed un bel giardino che, nei giorni di afa dell' estate dispensava una gradevole frescura.

Ci sedemmo ad un tavolo all'aperto, ordinammo qualcosa e quindi il barone, con il fare serio di chi non ammette che si giochi con un tal genere di cose, tirò fuori dalla borsa la pagella della mia "retrospezione" incarnativa e me la dette a leggere.

Tirai subito un respiro di sollievo: non figuravano, nel mio passato, né faraoni né sommi sacerdoti, né papi né imperatori, né comunque altri eccelsi personaggi storici. In caso contrario mi avrebbe attraversato la mente come un lampo la feroce bat­tuta di Arturo Reghini:  “Strano, non ce n'è mai uno che in una vita anteriore sia stato un venditore di caldarroste sotto i portici di piazza S.Maria Novella a Firenze”.

Rassicurato dall'assenza di strepitosi avatars, come forse li avrebbe chiamati il barone, rilessi con calma la pagina che mi riguardava, mentre don Ricciardo era in attesa delle mie reazioni.

La prima parte mi interessò di meno, perchè la sentii da me lontana. Con la seconda parte la musica cambiò, perchè venne stranamente a convergere con un intrico di inclinazioni psicologiche, filosofiche ed esistenziali, di radicate impulsioni, di tenaci preferenze per particolari circostanze temporali, geografiche e storiche, di percorsi di ricerca iniziatica nei quali mi ero già avviato, tanto da restituirmi un quadro d'insieme abbastanza caratterizzato e coerente.

Molto bene, dissi a me stesso, il barone ha qualche facoltà telepatica e mi legge nei pensieri. Tuttavia l'eventualità che il barone avesse ricevuto dal Kremmerz un qualche rituale per un tal genere di indagini, mi indusse ad una prudente, pirroniana sospensione del giudizio[3].

Ci lasciammo con la promessa del barone di darmi la "bella copia" di quel foglio, che immaginavo o meglio, speravo, fosse corredata di qualche ierogramma che ne accrescesse il fascino magico.

Invece non lo rividi più. Qualche tempo dopo, l'esilio terre­no del barone mago avrebbe avuto termine con la compiuta espiazione, che gli auguro definitiva, della colpa iniziatica che egli si era addossato. A me restò il dispiacere di avere perduto un interlocutore di raro interesse e, forse, un amico.

Per caratterizzare il ruolo da lui svolto nel risveglio di interesse per l'ermetismo registrato in Italia nel XX secolo e tentare di individuare quanto in tale ruolo possa  avere un significato non effimero e transeunte, non trovo di meglio che riprodurre le ispirate parole con le quali Giammaria conclude la "psicografia" del barone, del quale fu per lunghi anni amico: "Ma oltre che sotto il profilo di dettaglio, l'opera filosofica-filosofale di Marco Daffi ha significanza, assunta anche e intesa globalmente, nella sua interezza, quale fluorescenza della seminatura d' "ordine egizio", che promossa dal Kremmerz agli albori del XX secolo venne ripresa verso gli anni cinquanta da Marco Daffi e proseguita fino al suo decesso, in un iter che è tutto una epifania della Stella di Ermete”[4].

(Tratto da Elixir n. 4, per gentile concessione delle Edizioni Rebis)

[1] “Il Processo del Mago”, ristampa integrale dell’edizione originale del 1942 a cura di P.L. Pierini R., con un’ampia introduzione di Giuseppe Maddalena Capiferro e Cristian Guzzo, Ed. Rebis, 2010.

[2] Cfr. Giammaria, Marco Daffi e la sua opera, Editrice Kemi, Milano, 1980, p.11

[3] Il barone Ricciardelli possedeva in effetti un archivio esoterico di rilevante importanza, comprendente, tra l’altro, pratiche e manoscritti inediti di carattere magico, teurgico e alchimico raccolti in parte durante le personali ricerche, ma principalmente provenienti direttamente dal Kremmerz (NdC).

[4] Ibid., p.28.

 

 

Categoria: