“La natura non è altro che Dio nelle cose”

(Spaccio della Bestia Trionfante)

Disquisire sulla concezione del Divino presente nelle opere di Giordano Bruno rappresenta un impegno al quanto gravoso, sia per la complessità dell’approccio ermetico che vi si presenta, sia per la vastità delle fonti di riferimento. E’ d’uopo, comunque, sin dal principio, evidenziare come la dottrina bruniana si innesti perfettamente nel solco della più pura e platonica tradizione iniziatica d’Occidente, per l’idea, che già è possibile ritrovare nell’intera ecumene greco-romana – da Empedocle a Nonno di Panapoli, passando per Platone, Cicerone, Varrone e tutti i neoplatonici – che non sussista reale separazione nell’Universo e che lo stesso sia analogicamente e magicamente presente nella complessa fisiologia occulta dell’Uomo. Ciò ci induce, pertanto, a considerare la dottrina bruniana di pura natura magica, cioè altamente identificativa, che non contempla dualità alcuna, tra Uomo e Natura, tra Divino e Natura e soprattutto tra Uomo e Divino:

“Da noi si chiama artefice interno, perché formula la materia e la figura da dentro: come da dentro del seme o radice manda ed esplica il tronco; da dentro il tronco caccia i rami; da dentro i rami i rami principali; da dentro questi spiega le gemme; da dentro forma, figura, intesse, come di nervi, le frondi, i fiori, i frutti” (De Causa, Principio et Uno).

Tale enunciazione ci pone dinanzi a due direttrici complementari, che si integrano perfettamente con ciò che è generalmente inteso come il processo di palingenesi arcana di natura magico-trasmutatoria e cioè la comprensione dell’Arcano della “Molteplice Unitarietà” del Cosmo e della sua unica ed irrinunciabile realizzazione tramite una direzione catartica e centripeta, che dalla Natura si riconduca nelle oscure contrade del microcosmo per ritrovare, contemplare e assumere quel Sole, che, secondo l’insegnamento alchimico di Gitchel (in Theosophia Practica), è occultato nel Cuore e vegliato dal serpentino Guardiano della Soglia.

Precisamente, nel De Magia e nel Sigillus Sigillorum, il Nolano ha la scrupolosa accortezza di designare tre cardini della sua concezione magica del Divino, Ars, Mathesis, Amor, cioè la tecnica di conoscenza dell’arcano, la misurazione pitagorica di ciò che combina il Divenire e l’Essere, e soprattutto lo Spirito mercuriale tramite il quale esclusivamente è possibile concepire il Mondo e l’Uomo, cioè l’assunzione dello stesso in prospettiva interna. Per Bruno, infatti, i nessi sottili dell’Universo si disvelano autenticamente solamente quando si iniziano a comprendere i nessi che caratterizzano la nostra interiorità: in tale prospettiva, non si può certo dar torto ad un grande studioso di Bruno come Leen Spruit (Magia: Socia Naturae. Questioni teoriche nelle opere magiche di Giordano Bruno), quando individua nelle opere di Agrippa, di Ficino, di Pico della Mirandola e nel testo ermetico dell’Asclepius i capisaldi di dottrina fondamentale a cui ha fatto riferimento. E’ sua la sapienziale espressione “Similitudo Magni Mundi” (De Umbris Idearum), in cui si esprime l’idea secondo la quale gli elementi di inerziale origine del mondo sono alla base della sua emanazione quanto della generazione umana e, pertanto, solo un processo conoscitivo che sappia coglierne la “Molteplice Unitarietà”, può consentire l’identificazione magica dell’umano con il Divino.

In tale ottica, ciò che per Bruno risulta essere il crivello operativo è costituito dal Pensiero, come elemento che regola “la nostra conoscenza ed ogni ars humana” (Spruit). La realtà, quindi, non conosce vuoti d’essere, come ha dimostrato recentemente la Fisica nell’ambito delle onde vibrazionali, non esistendo materia inerte ed inorganica, non potendoci essere una minima assenza del Divino nella Natura e nell’Uomo. In ciò – è importante evidenziarlo – il riferimento alle dinamiche del Pensiero ci conducono inevitabilmente a riflettere su come la dimensione magica bruniana ricalchi la matrice ancestrale della sapienza misterica, in cui il centro dell’Opera è e permane essere sempre lo stato di consapevolezza dell’umana esistenza e la sua capacità o meno di rimodularsi sulle frequenze sottili del Divino:

“Qui noverit ergo hac animae continuationem indissolubilem et eam corpori quadam necessitate astrictam, habebit non mediocrum principium, tum ad operandum, tum ad contemplandum verius circa rerum naturam” (De Magia).

Lo stato intermedio, tra Corpo e Spirito, è costituito da quell’anima sottile che è, come in uno specchio, offuscata e che quindi necessita di essere ridestata nella sua cristallinità, nella sua radice verginale, nel ricordo della propria radice primordiale e divina. Nella concezione di Bruno, infatti, ritorna l’anamnesi platonica, ritorna la pitagorica purità sottile, si affaccia e si afferma quella Ars Memoriae, similmente al suo conterraneo Gianbattista Della Porta, che è attivazione attiva del pensiero e dell’immaginazione (sarebbe interessante poi approfondire l’interpretazione di Frances Yates delle tavole mnemoniche del Nolano):

“Questa attitudine non si appoggia a nessuna delle potenze dell’anima stessa, come ad un ramo, né è ciò che emerge da una qualche facoltà peculiare: ma è ciò che abita il tronco stesso del tutto, vale a dire la stessa essenza di tutta l’anima.” (De Umbris Idearum).

Una così chiara prospettiva magica non può che ricondurre le indicazioni del nostro alle pratiche mnemonico – immaginative e di attivazione del pensiero, che verranno enucleate qualche secolo dopo, di un Fulcanelli, di Kremmerz, di Steiner, del Gruppo di Ur, che rendono giustizia alla reale missione iniziatica di un Bruno, non riconducibile gli estremismi, che vorrebbero farne un’icona del libero pensiero e della laicità. Giordano Bruno sfugge, infatti, a tale appropriazione indebita, imponendosi la collocazione della sua vita e le sue opere in linea di continuità ideale sia con la misteriosofia antica, greca ed egizia, sia col neoplatonismo teurgico di un Proclo o di un Giamblico, oltre che con il mondo dell’ermetismo italico ed egizio-napoletano:

“Nello studiare le Scienze Occulteprocedete da idee semplici e chiare. Se lasciate briglia sciolta alla fantasia, all’immaginazione, troverete nella esagerata tensione del vostro orgoglio di aver raccolto un risultato nullo. La Magia Naturale mette a profitto lo sviluppo della forze occulte che si trovano nascoste in ogni organismo umano. Senza esagerare, sviluppa quel che può e come può meglio le manifestazioni che le forze non coltivate in noi possono produrre. Quando dico forze dico vibrazioni sottili, potenti e intelligenti del corpo umano preso in sé stesso come unità e nei rapporti con la natura universale” (G. Kremmerz, La Magia Divinatoria, I Tarocchi, Portici-Febbraio del 1905).

Tale è l’insegnamento sapienziale, tale è l’Arte trasformatrice e rituale, come lo stesso Bruno afferma, che è arte naturale: è arte maieutica che riscopre il reale e sacro fondamento intellegibile degli elementi, della Natura, degli Uomini e degli Dei. Il Divino è, quindi, sempre presente a se stesso e si occulta, come in Plutarco ed in Nietzsche, quando l’umano smarrisce la via della propria attività cosciente, cioè il Nume muore alla vista annebbiata del dormiente, ma si rimanifesta alla visione magico – attiva del Vegliante.

Tale è la comprensione sottesa, per esempio, ad un’opera fondamentale del Nolano come lo Spaccio de la bestia trionfante, in cui platonicamente si completano e si legano nell’Essere Uno, rappresentato da Giove, le diverse componenti del Mondo e dell’Anima, il simposio olimpico, da cui l’umano non è religiosamente separato, lunarmente distinto. Vi è una prospettiva comunitaria, come nella Repubblica di Platone, in cui dimensione civica e ontologica, come nella Tradizione di Roma, non sono scisse, non scindono cristianamente enti, Natura, Urbe e Dei, perché il cittadino li vive esteriormente nello Stato ed interiormente nella propria anima:

“Conoscevano quei savii Dio essere nelle cose, e la divinità latente nella natura, oprandosi e scintillando diversamente in diversi suggetti, e per diverse forme fisiche con certi ordini venir a far partecipi di sé, dico de l’essere, della vita et intelletto; e però con gli medesimamente diversi ordini si disponevano alla recepzion de tanti e tai doni, quali e quanti bramavano. Quindi per la vittoria libavano a Giove magnanimo nell’aquila, dove secondo tale attributo è ascosa la divinità”.

La cacciata della Bestia Trionfante, in conclusione, si configura come la trasmutazione magica della componente sottile e titanica, realizzata solo concependo il Divino in una prospettiva ermeticamente trascendente e simultaneamente immanente, in cui le dinamiche della memoria e del pensiero possano riscoprire le chiavi di accesso all’Opera. Tale è il riferimento – purtroppo gravemente non compreso da Evola – all’idea del Lavoro, non inteso in senso moderno e mercantilistico, ma come procedimento operativo e sacrificale che attua quelle separazioni, quelle distillazioni e quelle coagulazioni essenziali alla realizzazione dell’Arcano:

“Perseo fu Perseo, et Ercole fu Ercole, et ogni forte faticoso è faticoso e forte”.

Luca Valentini

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