1° luglio 2016, per ricordare il 70° anniversario della morte

 

Caro Maestro, caro Arturo,

nello stile in uso nelle accademie ermetiche e neo-pitagoriche permettimi di iniziare questa commemorazione rivolgendomi a Te dandoti del tu, non certo per sollecitare un approccio confidenziale, ma per poterti scrivere una lettera nella forma più fluida e scorrevole possibile.

D’altra parte, nel tuo epistolario, ho letto che ti rivolgevi al tuo Maestro dandogli del Tu ed io voglio presumere che tu gradisca di buon grado il “caro Arturo” provenendo da un uomo che ti vuole bene e che ti considera Maestro.

L’ultima volta che ci siamo incontrati di persona è stato nella tua Firenze, al Caffè delle Giubbe Rosse, dove io, alla tua presenza, ho celebrato il 40° anniversario della tua dipartita per i Campi Elisi.

Tu eri li, seduto nella tua piccola sedia di legno dove abitualmente bevevi il caffè e ti trattenevi a colloquio con i tuoi illustri amici e sodali. Dall’espressione del tuo viso ricordo che gradisti il mio discorso e ciò mi dà il coraggio e l’ardire di scriverti di nuovo al fine di mantenere vivo il nostro dialogo sulle idee che agitarono la tua mente e quella dei tuoi amici tuoi contemporanei.

Quel giorno mi congedai da te con queste parole: “E se oggi, da questo antico e storico caffè letterario, partisse la giusta scintilla per accendere una nuova stagione di studi e di lavoro, è certo che avremmo onorato, come meglio non si poteva, la tua memoria”.

Credo di poter dire che la scintilla di allora, se non ha prodotto un vero e proprio incendio, ha per lo meno acceso nei cuori di tante persone la fiammella della speranza che forse produrrà, mi auguro, in un futuro non molto lontano, l’incendio di cui gli italiani avvertono, anche senza saperlo, il bisogno.

Parlo di quell’incendio di idee che in altri tempi fu prodotto da uomini come Giordano Bruno e Leonardo i quali lottarono, ciascuno a suo modo e con i propri mezzi, per il rinnovamento della scienza e della filosofia, non ricorrendo a principi balordi e sovversivi, ma ripercorrendo la strada maestra dell’antico sapere, dimostrando così che l’umanità stava retrocedendo, in nome di una falsa modernizzazione, che era in realtà solo regresso.

E’ deviante l’idea di coloro che vogliono far passare gli apostoli del libero pensiero per fautori di un’emancipazione in chiave progressista delle idee sociali e religiose del loro tempo: solo per citarne alcuni, ricordo che Giordano Bruno scriveva, avendo in mente l’antica sapienza egiziana e Tommaso Campanella la filosofia della scienza di Pitagora.

Permettimi a questo punto di passare alla terza persona per poter meglio raccontare i fatti che riguardano la tua opera e la tua vita.

Come accennavo Reghini parla spesso di Bruno, Campanella, oltre che di Dante, di Vico e dei grandi del Rinascimento considerandoli i continuatori della tradizione italica, di quella tradizione cioè che, a volte come un fiume sotterraneo, essendosi più volte dovuta occultare a causa delle incomprensioni e persecuzioni, ha sempre riaffermato la vera cultura italiana, quella cioè di cui dobbiamo andare fieri e che nessun impostore o usurpatore potrà mai alterare e deturpare.

Qual è questa cultura? Ma è quella dell’umanesimo che non deve essere unicamente e semplicisticamente associato agli studi letterari, come la poesia e l’arte dello scrivere, ma alla cultura dell’anima e dello spirito che troppo spesso in Italia è stata erroneamente delegata a chi di questi problemi si è auto-investito unico e privilegiato depositario, facendone uno strumento di superstizioni e di potere.

Complice di questa auto-investitura il mondo scientifico che ha esercitato il dominio e l’esplorazione della parte visibile dell’universo, abbandonando tutto ciò che non cade sotto i nostri sensi ai dogmi e ai precetti delle sette e delle religioni, che non si sono limitati a questo, ma hanno preteso di sconfinare anche sul terreno altrui, lanciando anatemi e pronunciando condanne laddove non si concordava con i loro errori.

Sicché il metodo scientifico è caduto facile preda dei materialisti che inizialmente si sono ostinatamente rifiutati di voler riconoscere agli studi psichici e alle indagini sull’anima un pragmatismo positivo marchiandoli di ciarlatanismo e di magia.

I primi cambiamenti in questa mentalità si ebbero agli inizi del secolo XIX° e il primo merito va riconosciuto al movimento teosofico che ha dato un duro colpo a questa apparente inimicizia tra la scienza e lo spiritualismo, riuscendo a guadagnare alla causa spiritualista uomini che possedevano il valore di uomini di scienza integrale. Un esempio fra tanti: i grandi medici del passato come Paracelso e gli alchimisti come Tritemio non furono più giudicati e visti come ciarlatani e venditori di fumo, ma sotto la lente delle nuove verità che emergevano da studi più attenti e scrupolosi.

Reghini ebbe il merito, non da solo naturalmente, ma con altri valorosi studiosi come lui, nei primi anni di quel secolo, di battersi contro il divorzio che opponeva la scienza alla religione e di fornire al mondo dello spirito il supporto scientifico che gli veniva dalla sua matrice pitagorica e al mondo della scienza quella dimensione cosmica e divina che gli veniva dal suo sapere di carattere rinascimentale.

Nel mio libro “Il figlio del Sole”, una biografia di Arturo Reghini, ho descritto con dettagli i grandi meriti e le grandi qualità che fanno di lui il maggior pitagorico dell’età contemporanea e pertanto uno dei maggiori matematici del suo tempo; ma non dobbiamo commettere l’errore di intendere il suo pitagorismo semplicemente in relazione alla matematica, perché il pitagorismo, quello classico della Schola Italica, fu qualcosa di più di un sistema di teoremi di numeri e di disegni geometrici, i numeri e i poligoni avevano una dimensione sacra e secondo l’antica Scuola erano alla base della conoscenza umana e divina.

Non è il caso di richiamare alla nostra memoria gli insegnamenti di Platone, di Aristotele, di Giamblico o di Nicolò da Cusa per affermare che senza l’antica dottrina pitagorica non sarebbe esistita la musica moderna, la filosofia, la scienza di Galileo e di Leonardo, ma nello stesso tempo ho il dovere di aggiungere che non v’è stato uomo più travisato di Pitagora nel senso che, o alcuni si sono serviti del suo nome e del suo insegnamento per inventare sciocchezze settarie, o per calunniarlo.

Per restituire le cose alla dignità del giusto e del vero Reghini concepì e scrisse un’opera monumentale in sette volumi intitolata “Dei Numeri Pitagorici”, di cui il solo Prologo e due volumi hanno visto la luce, il resto rimane inedito, perché non c’è stata un’Università o una istituzione culturale che si è voluta prendere la briga di curarne la revisione e la pubblicazione. Tant’è, si dice che l’editoria è in crisi, che si legge poco e si studia meno, sarebbe facile per me puntare il dito contro i responsabili di questo imperdonabile disinteresse. Ma oggi non voglio polemizzare con nessuno, dico solo queste parole perché ancora non ho perso le speranze che una Normale di Pisa o un’Accademia culturale prestigiosa corra a colmare la grave lacuna.

Il nome di Reghini è conosciuto in molti ambienti, ma solo pochi ne apprezzano le virtù e le capacità di cui era dotato, anche perché pesano ancora sul suo nome gravi pregiudizi, difficile da rimuovere. Per esempio lo si accusava di essere un uomo polemico, un fiorentino anticlericale dalla lingua tagliente. In parte è vero, ma è una qualità comune a molti toscani, specialmente fiorentini che non a caso Curzio Malaparte aveva definiti “maledetti toscani”; nel caso di Reghini, veniva trascinato nell’arena da maldestri e tutto sommato impreparati polemisti, incolti e presuntuosi. Succedeva prevalentemente tra alcuni esponenti di associazioni di varia natura che dicevano di vantare fantasiose genealogie e discendenze di dubbia serietà.

Qualche volta veniva anche derubato delle idee e degli scritti e non appena scopriva che i plagiatori (generalmente ex-amici o ex-collaboratori) menavano vanto delle loro squallide fellonie, le liti erano furibonde e qualche volta si concludevano in tribunale.

Ma sapeva amare e essere devoto agli amici e riconoscere l’autorità dei maestri veri, come il maestro Amedeo Armentano che nel 1910 lo iniziò spiritualmente nella scuola pitagorica di cui Armentano era il capo riconosciuto o come il maestro Giuliano Kremmerz su cui si espresse in modo lusinghiero in una bellissima lettera a un amico scritta presumibilmente negli anni 40.

Ebbe inoltre la fortuna di vantare l’amicizia con i grandi artisti, poeti e scrittori a lui contemporanei che furono i promotori di quel grande movimento conosciuto come futurismo, tra cui Papini, Marinetti, Soffici, Campana, Vannicola, alcuni dei quali si sedettero con lui ai tavoli di celebri caffè fiorentini o collaborarono con altrettante celebri riviste come Leonardo e Lacerba.

Ma tutti noi ricordiamo Reghini, non solo per la sua grande opera sui numeri pitagorici, bensì come fondatore di alcune importanti riviste: ATANOR nel 1924 e IGNIS nel 1925 autentiche fucine di idee e di battaglie ideali per la rinascita della tradizione italica e romana e per le monografie su autori più o meno conosciuti ma di straordinaria importanza che hanno segnato la vita spirituale di alcune epoche e persone.

Nel 1927 con la fondazione della rivista UR e con la sua presenza nel Gruppo omonimo dedito agli studi e agli esperimenti di carattere magico e esoterico ispirati alla tradizione occidentale e mediterranea, Reghini tocca l’apice del suo impegno spirituale. Si avvicinava infatti l’anno 1929, l’anno dei Patti Lateranensi e della definitiva involuzione del fascismo in senso autoritario e clericale. Vennero promulgate le leggi liberticide contro le società segrete e esoteriche e per Reghini si chiusero tutte le porte di qualsiasi attività anche semplicemente culturale.

Nonostante gli attacchi e le minacce, riuscì a conservare a mala pena il posto di lavoro, di insegnante di matematica, e decise così di ritirarsi in un dignitoso silenzio dedicandosi soltanto alla sua opera sui numeri pitagorici. Alcuni suoi amici e lo stesso suo maestro erano stati costretti ad emigrare all’estero.

Infine, rimasto solo e lontano dagli amici, si ritirò in una casetta nella cittadina di Budrio vicino a Bologna dove il 1° luglio 1946 si spense serenamente assistito dalla sua fedele amica Camilla Partengo.

Tra le sue opere più importanti e significative ricordiamo, in ordine di apparizione:

Gli articoli sulla rivista “Leonardo” nel 1906-1908, su “Salamandra”, 1914, su “Lacerba”, 1915, le conferenze alla Biblioteca Filosofica da lui fondata insieme a Papini nel 1908, “Rassegna Massonica” negli anni ’20, il libro “Le parole sacre e di passo”, Atanor, 1924, la rivista Atanor, 1924 e IGNIS nel 1925, gli articoli su UR, 1927,1928, il libro “PER LA RESTITUZIONE DELLA GEOMETRIA PITAGORICA”, pubblicato nel 1978 da Atanor,   I NUMERI SACRI, Atanor, 1978, DEI NUMERI PITAGORICI (Prologo), Ignis, 1983, ESCRITOS SOBRE A MAÇONARIA, Lisbona, 2003, Introduzione alla Filosofia Occulta di Enrico Cornelio Agrippa, Mediterranee, Roma, Dizionario Filologico, Ignis, 2007, DEI NUMERI PITAGORICI, Parte 1, Libro 1, Dell‘equazione indeterminata di secondo grado con due incognite e Volume II, Archè, 2006, Cagliostro, Ignis, 2006.

Tratto da ereticamente.net che ringraziamo per la gentile collaborazione.

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