Iudices Dii Iudicantes - Giuliano Kremmerz

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A cura di OR

1) L’esposizione dei peccati.

2) Il supremo egoista accusatore.

3) La Pena.

Ho vegliato tutta la notte dopo aver scritto il Praeludium, e mi son levato di umore nero come l’inchiostro. Ho pensato alla possibilità della morte che potrebbe colpirmi da un momento all’altro e chiamarmi innanzi al tribunale degli Dei per dar conto dei miei cinquant’anni di vita nell’inferno umano. Mi è apparsa innanzi agli occhi la bilancia che i cattolici mettono in mano all’Arcangelo, e mi son detto che gli errori commessi devono raggiungere tale un peso enorme che, se anche mettessi nell’altra coppa il campanile di Pisa e il Duomo di S. Ambrogio, non potrei ottenere l’equilibrio voluto per tornar negli Elisi. 

Unica scusante mia è che il bacillo della falsa e morbosa pietà per le opinioni altrui mi ha infestato sin dalla nascita; ed io, che sapevo e so, mi son chinato dinanzi agli umani ed ho arzigogolato argomenti e ragionamenti, per persuadere gl’ignoranti presuntuosi che… non si son convinti né persuasi della loro ignoranza. O giudici divini, Vi chiedo perdono, la colpa è mia, è della superbia degli altri e del bacillo della pietosa viltà che mi ha fatto errare il cammino. Voi, o Dii superni, ben sapete di quali stinchi di beccamorti è formata l’umana società. Se ne aveste avuto opinione migliore della mia, non avreste permesso, ogni tanti secoli, delle invenzioni religiose come il buddismo, il cristianesimo e l’islamismo, per mettere un margine all’appetito degli emergenti che divorerebbero le carcasse dei propri simili, ossa ed abbigliamenti compresi, per poi distruggersi tra loro con la crudeltà golosa degli antropofagi dilettanti.

M’avevate quaggiù mandato con la piccola missione di chiamare i migliori e dir loro la verità. Me ne son fatto dei nemici, perché è parso ai più che io dicessi cosa indigesta e non garantita; e per averli trattati da pari a pari, ho commesso lo sproposito di far credere loro che hanno una testa per giudicare delle fandonie e per restare del loro parere.

Né son valse le buone parole, le buone azioni, i buoni pensieri. La mia piccola missione non ha fatto che pochi proseliti nei già preparati a sentire una voce divina, la vostra per mia bocca.

(Si nota un certo movimento fra i giudici divini, uno di essi torce il muso, Mercurio saltella irrequieto…)

Ho cominciato col richiamare l’attenzione del pubblico sull’esistenza di una scienza portentosa della natura e dell’anima umana, ho evocato l’antica Magia e la sua essenza filosofica, spogliandola dalle infinocchiature dei plebei; ne ho fatto vedere le corrispondenze coi tipi religiosi delle credenze più diffuse e classiche, e ho detto a tutti che la divinità magica, trasmutatoria e miracolosa, risiede nell’uomo, in tutti gli uomini, e si svela a chi la sollecita e n’è degno.

Fino a quando esposi storie e teorie, le cose andarono meno peggio di quanto potevo temere. Della gente che sente il moderno e il progresso, solo nelle parole, mi gridò la croce addosso perché adoperavo la voce Magia, voleva nomi nuovi, non importa che la cosa sia vecchia; e io a gridare che non potevo, perché la favella umana, per tanti secoli di povertà intellettuale, non ne ha fatta una che risponda alla idea, perché i cultori di magia filosofica e operante sono, come le bestie a tre occhi, rarissimi, che hanno scritto di cose tanto contrarie alla quiete delle anime piccole e vilissime della moltitudine spavalda.

La gente dotta, tipo accademico, per la quale non esiste che la sua scienza, non mosse ciglia né fece finta di udire. Quelli che vollero tentare di mettersi all’avanguardia dei nuovi studi, scrissero e ancora scrivono roba da chiodi sulle scienze psichiche, che non sono la magia, né parte di essa, dal loro punto di vista, ma tutta l’antica magia di cui essi non hanno mai sentito parlare…

Ma due tipi di cultori del meraviglioso si sentirono istintivamente presi in burletta, gli spiritisti e i teosofi che, vi giuro, o Numi barbuti, non mi hanno mai digerito e hanno contribuito a non farmi intendere.

Numi santissimi che nelle frescure degli Elisi ammirate le giostre delle Ninfe coi divini Satiri e dei giardini olezzanti di tuberose, voi non avete né potete avere neanche la più vaga idea di quanto sia diffusa nell’inferno degli uomini la credenza negli spiriti dei defunti che parlano e vengono in sogno ai viventi!

Oltre i veri e propri spiritisti che fanno parlare, scrivere, picchiare e sonare gli spiriti dei trapassati, chi meno vi credete adatto (per esempio, qualche professorone che nega scientificamente tutto, e in secreto si commuove sognando la madre morta) cova una profonda sentimentalità atavica che gli dà la fede di credere alle anime del purgatorio!

Giuro sulla tomba degli antenati di Matusalemme che ho fatto di tutto per far ragionare questi umani campioni della credulità, ma non vogliono ragionare, sommi Iddii, hanno bisogno di credere che lasciando questo grazioso pianeta che rotola negli spazi come una palla di gomma, l’uomo-spirito o l’uomo-anima sia libero dalle leggi della Natura Unica e viva, e ragioni e vagoli a una velocità inverosimile da un punto all’altro dell’Universo, per apparire, parlare e consigliare a quelli che, impegnati nella carne, mangiano ancora il risotto alla milanese o le fettuccine romane.

I teosofi, d’altra parte… ma Voi, splendidi e saggi Iddii degli Elisi, non conoscete ancora questa rara e magnifica enciclopedia vivente indo-anglo-americana che si chiama teosofia, e occorre che io ve la presenti a grossi tratti, perché non è l’uovo di Colombo, ma per la sua semplicità ed ampiezza è addirittura un uovo di cento torli, tanto è comprensiva, come scienza religiosa e iperfisica, di tutte le religioni di tutte le razze, di tutti i tempi. Meno un certo vocabolario indostano che consiglia di chiamare l’anima, lo spirito, i sensi, l’appetito, con vocaboli perfetti estratti dalle memorie camitiche della terra di Babele, la teosofia prende tutto sotto le sue grandi ali e diventa madre anche delle cose increate.

Se domani un uomo dovesse scoprire il modo di far la polenta senza farina, state sicuri, o Numi, che la teosofia già da secoli lo sapeva e lo aveva preveduto. Così che lascia a tutti i soci libertà assoluta di estrarre dalla propria miniera quanto d’inedito si sia mai sentito sulla faccia del vecchio mondo e del nuovo mondo; ed i suoi maestri li ha in oriente, tutti indiani pronti a non sentire.

(Nuovo movimento nel consesso divino. Numa Pompilio, che funziona da cancelliere, annota con un risolino etrusco l’ultima frase della mia difesa)

Voi, o Dei latini, che visitavate di tanto in tanto l’Urbe, di tutte queste cose nuove e strane non vi date conto. Negli Elisi avrete introdotto l’idroplano, il biplano, l’automobile, il divino Mercurio si sarà provvisto di motocicletta, ma i giornali non li leggete…

(L’ombra di Menenio Agrippa che è nell’aula, mi mostra un giornale socialista…)

Questa gaia ed eletta schiera di poeti orientalizzanti in una palestra attiva per la sua mondanità che beve il the… (Bacco ha dei movimenti peristaltici dell’addomeEsculapio gli porge un calice di Falerno…) che non ammette il perdono e il lavaggio dei peccati commessi se non espiando passo passo tutte le colpe in una digestione purificatrice, non poteva essere tenera con le cose più semplici che predicavo io e che avevano il poco merito di essere scritte nelle vicinanze di Ercolano, Pompei e Cuma, dove tutto parla di Voi e delle Vostre opere grandi.

(Cupido fa una breve capriola e accarezza le turgide mammelle di Venere; l’ombra di Petronio mi sorride)

Fino allora, in piena teorica, meno male, ma la mia piccola missione era quella di scendere alla pratica e cominciarono, o beatissimi Numi giudicanti che conoscete le male lingue del suburbio e delle taverne dei liberti, le voci… chi è costui? Che fa? Che vuol fare? Che scopo arcano egli ha? Cosa mangia, come beve? Donde viene? Chi lo paga? È medico? È dottore? È professore? Sa leggere? È virtuoso? Che vita mena?

Invece di pensare alla cosa, gli uomini chiamati a raccolta pensavano all’uomo che la proponeva; e molti anni son passati in tormenti piccoli e grandi, tra la diffidenza dei molti, la fede dei pochi, i pettegolezzi del gran numero, la pazienza dei migliori.

Pochi discepoli che saranno i maestri del domani, fecero tesoro del vostro insegnamento. Alcuni parvero defezionare, e saranno i maestri del dopodomani. Altri mi rinnegarono, ma il vostro Verbo ha fatto buona presa nell’animo loro; spunteranno in ritardo, ma spunteranno… I veri defezionanti furono un minimo numero, e li rattenne la paura o la superbia individuale che li volle conservare bestie. A tutti tenni il linguaggio chiaro e preciso come l’onnipotente Esculapio m’infondeva. Se la filosofia è vera, la pratica deve dimostrarlo. Facciamo la pratica della medicina divina, sviluppate in ognuno di voi il potere energetico di guarire voi e i vostri simili dai mali di cui siete afflitti, formate una catena di anime, e create una fonte di salute in pro del popolo dolorante. Operate. Agite. Vogliate. Sottraete le influenze attive e imponderabili dalle ubbriacature dei mistici, degl’isterici e dei pazzi, e guarite. Lasciate che il medico e il farmacopulo[1] raccolgano la riconoscenza dei guariti. Voi dovete dare all’ammalato una forza, un fattore invisibile che ne determina la sanità con un medicamento miracoloso che è parte di voi stessi.

La vita e il germe di vita che scorrono nelle vostre vene sono parti comunicanti con la vita e il germe di vita che vibrano nelle arterie dell’Universo. Il serpente di Esculapio ve lo addita, e quell’unica sorgente qui zampilla, là si affievolisce, più in là si inaridisce e si spegne.

Operate, agite, vogliate con convinzione fuori ogni misticismo, e ogni più malvagia ricetta di un medico qualsiasi acquista valore di miracolosa medela.

Non vi commuovete, non sperate compenso, non ne accettate mai, perché quello che farete e produrrete non ha prezzo che lo paghi, e ogni prezzo lo abbassa e lo umilia.

(Esculapio è raggiante, Mercurio fa due piroette)

Fondai dei Circoli ed Accademie; e se facemmo del bene, o maggiori Iddii, non sono io che devo farne l’inventario; posso dirvi però che nessuno picchiò alla nostra porta inutilmente; e, dove non potetti ottenere la sanità, mai si allontanò senza una parola consolatrice.

La parola è consolazione quando, più oltre le forme di convenienza sociale, è detta al sofferente da un uomo che ne comprende le afflizioni.

Ma, compiuto questo primo atto, lasciai che i più anziani si emancipassero.

Io mi rintanai nel mio guscio, come la testuggine in letargo. Il seme sparso sulla terra fertile dei migliori, germoglierà. I pochi che hanno compreso la Vostra parola si faranno comprendere, e tempo verrà che le propaggini della prima radice saranno una foresta.

(L’ombra di Cicerone venne a stringermi la mano)

Numi altissimi, Dii maggiori e gaudenti, meglio non ho saputo fare, e quanto mi sia stata molesta questa vita di apostolo, avvelenata, punzecchiata, discreditata, vilipesa, calunniata, spogliata di ogni requie e di ogni sesterzio, lo sa Mercurio…

(segni di assenso…)

 

(Tratto da: Giuliano Kremmerz, Il libro degli arcani maggiori e scritti vari, Edizione del Circolo Virgiliano, Roma 1993 (pp.107-117; con qualche refuso); prima del testo vi è questa precisazione: “Il testo è di datazione incerta: all’inizio il Kremmerz fa riferimento ad un altro suo scritto terminato la notte precedente; questo, per i riferimenti contenuti, può ragionevolmente essere datato ai primi mesi del 1914. Ciò senza assoluta certezza. Il testo presentato, inoltre, non è stato tratto dall’originale, ma da una copia dattiloscritta di un discepolo del Maestro”. Nel volumetto di Arduino Anglisani, Il Maestro Giuliano Kremmerz, L’uomo, la missione, l’opera, Viareggio 1985, alla pagina 34 è scritto: “In un brioso ed inedito lavoro incompiuto dal titolo Iudices Dii Iudicantes, il Maestro finge di apparire alla presenza degli dei dell’Olimpo, ai quali parla così:…”. Lo stesso testo, con alcune varianti, è presente in: Giuliano Kremmerz, La Scienza dei Magi, vol. III, Roma 1975 (ristampa 2012), pp. 628-632.] ).

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[1] [Variante di Farmacòpola o Farmacopòla, s. m. (dal greco pharmakopòles, pharmakòn + polèo = vendo), sinonimo di farmacista, ma nell’interpretazione comune vale piuttosto: preparatore, mercante, venditore di droghe; ciarlatano.]