Oltre le soglie del tempo: l’ermetica visione dell’Arcana Urbe – Stefano Mayorca

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Nel lungo ciclo temporale, ciclico divenire, che mena verso le regioni impenetrabili del mito e delle sue misteriose e arcaiche dimensioni, si cela il magico cammino dell’Urbe, magica testimonianza di antichi splendori e di ermetiche assonanze. Luogo carico di ancestrali richiami e di ctonie vibrazioni,  che nelle pieghe del tempo, hanno visto nascere l’eterna impronta dell’immortale Roma e dei suo Déi e Dee dalle multiformi effigi. Scriveva Empedocle, il filosofo greco: “La divinità non porta testa umana, né dalle sue spalle scendono due rami, non ha né piedi né ginocchia veloci né il sesso peloso, ma solo uno spirito, sacro ed ineffabile, governa e percorre tutto l’universo con la velocità del pensiero”. Questa è l’Urbe, intrisa di magia, ricoperta di mistero. E nel nome degli Dèi si cela l’incantamento. Il coro dell’Antigone di Sofocle, invocando Dioniso, lo chiama: “Dio che di nomi abbondi”. 

Il nome era di vitale importanza nella religione ermetica- magica di Roma, poiché il nome racchiude una potenza evocatrice come nel caso del Genius, vera matrice che infondeva vita alla Civitas e alle sue correnti più secretate. Evocando il nome del Dio non si evocava soltanto la sua persona ma si faceva anche sprigionare tutta la sua potenza benigna o maligna che fosse e, in questo contesto sacrale, rientra anche il nome segretissimo di Roma, ovvero dell’ente geniale di cui si accennava, che ne costituiva  la formazione occulta, i suoi poteri e la sua vita dimensionale, tanto nel visibile che nell’invisibile. Il nome, dunque, è l’apice di ogni creazione umana ed ermetica, perché finché non avevano un nome, gli Dèi, non potevano essere né venerati e tantomeno invocati o evocati. Il Verbum è lo strumento operativo che, attraverso l’opera immaginativa, dà vita al Tutto. Il nome è l’autentica e speculare essenza dell’essere. Per questo motivo ogni religione circondava il nome degli Dèi di particolari attenzioni, oppure era lecito solo ai sacerdoti-niziati pronunciarli, utilizzando specifiche conoscenze e la giusta pronuncia che solo essi conoscevano, con buona pace di chi ancora oggi nega l’esistenza di un collegio iniziatico-sacerdotale nell’Urbe. Così, solo essendo al corrente del nome, era possibile vivificare la deità.  Pensiamo al mito di Ra e Iside. Iside chiamata a guarire Ra, vuole conoscere il suo nome. Ra è contrario a svelarlo, teme che una volta conosciutolo, chiunque potrebbe acquisire potere su di lui. Iside insiste è dice con fermezza” Dimmi il tuo nome, poiché vive soltanto colui che è chiamato col suo nome”.

Il Lapis Niger

la via infera

Un altro luogo legato alle origini, suggestivo e intriso di una sottile malia, è un angolo del Foro dove è visibile il sacro Lapis Niger (letteralmente la pietra nera), conosciuto anche come Lapis Romuli, la pietra di Romolo. Secondo la tradizione quella pietra segna il punto in cui fu sepolto Romolo. Qui intorno al 23 agosto si officiava la cerimonia del Volcanal dedicata al dio Vulcano, denominata anche Vulcanalie. Vulcano, divinità romana di probabile matrice etrusca, si chiamava in origine Sethlans e a lui erano sacri il fuoco terrestre e quello celeste. Nel sotterraneo che custodisce il Lapis Niger aveva luogo il viaggio infernale che alludeva al viatico spirituale ed iniziatico, principio di rinascita intimamente connesso con l’Opera al Nero, la nigredo alchimica. Al di sotto della pietra nera si scorgono i gradini che conducono alla porta infera attraverso la quale si accede al ventre della Terra (la Grande Madre). Il passaggio è chiuso e nessuno può visitare l’oscuro pertugio dove aveva inizio il viaggio nelle regioni infere, initium dell’autentico cammino di trasmutazione e di rinnovamento spirituale. Qui, si avvertono vibrazioni che vanno oltre il comune sentire, qualcosa che non è possibile descrivere con il frustro linguaggio umano. La lapide di tufo nero reca un’iscrizione, la più antica in lingua latina oggi conosciuta. La scritta che appare sulla sua superficie è stata redatta con il sistema bustrofedico, ossia con le righe alternate dall’alto in basso e dal basso verso l’alto.  Le prime parole che compongono l’iscrizione dicono: “Chi violerà questo luogo sia consegnato alle ombre dell’Aldilà”.

Cibele la Magna Mater

Spostiamoci ora in cima al Palatino, il sacro colle, per vedere da vicino una dea misteriosa e i cruenti riti a lei dedicati, il cui culto, guarda caso, prima di approdare a Roma era diffuso nel cuore dell’Oriente segreto. Qui veniva adorata Cibele, la Magna Mater. L’aspetto simbolico legato a questa dea è ben descritto dal grande Lucrezio nella sua importante opera De rerum naturae (II, 604-616): “ …due leoni aggiogati guida, seduta in un cocchio,  nel cielo, a volo, per dire che sta sospesa l’immensa terra, e poggiar  sulla terra non può la terra. V’aggiunsero le fiere, perché la prole, domata dai benefizi dei genitori, si deve, se pur feroce ammansire. E perché tiene sui colli le ben munite città, a sommo il capo le cinsero della murale corona: ora si porta, adornata di tali insegne, a spavento di terra in terra la statua della Dea Madre. Diverse genti la invocano Madre idea, secondo l’antico rito del culto, e le danno caterve frigie a corteggio, perché si dice che dalle terre di Frigia per prime in tutto il mondo le messi han cominciato a prodursi”. Dalle parole di Lucrezio si riceve conferma del fatto che Cibele era una divinità adorata dalle popolazioni dell’Asia Minore. Il centro del suo culto in effetti, si trovava a Pessinunte, in Frigia. Il suo nome non è che l’adattamento di Matar Kubile con il quale la chiamavano i Frigi. Adottato in seguito dalle popolazioni elleniche sopraggiunte nell’Asia Minore, il suo culto si estese fino alla Triade, dove fiorì nelle vicinanze del monte Ida. Per tale circostanza, quando fu introdotta a Roma, Cibele non venne considerata una dea straniera, giacché i Romani si consideravano discendenti dei Troiani. La ritualità espressa dagli aspetti occulti della dea erano strettamente collegati al culto del suo amante Attis, della mitologia frigia. Attis, dio della natura, rappresentava la morte e la rinascita della vegetazione, incorporando in se alcune analogie con il dio assiro–babilonese Tamuz. Il concetto di morte e rinascita racchiusi nei misteri di Attis, contemplavano una ritualità violenta, al culmine della quale gli iniziati e i sacerdoti, in preda al furore mistico si eviravano e le sacerdotesse si mutilavano.

Il culto di Cibele venne introdotto intorno al 204 a.C., quando re Attalo di Pergamo donò a Roma (o forse fu persuaso a farlo), la pietra nera di Pessinunte, un grande meteorite, una immagine simbolica della dea che fu collocata sul Palatino. Nota quale divinità montana, come testimoniano alcuni suoi epiteti legati ai nomi di diversi monti, Berecinzia, Dindèmene e Idea, divenne celebre a Roma con l’appellativo di Magna Mater, la Grande Madre, la divinità primigenia universale. Il suo santuario, edificato sulla sommità del Palatino, era indicato con il nome di Magna Mater Deum Idaea. I sacerdoti di Cibele erano detti Galli e Coribanti, ma anche Arcigalli (sacerdoti questi ultimi devoti ad Attis). I riti magico–cultuali in onore della dea del monte Ida (Deum Iadea), erano contraddistinti da azioni cruente e sanguinarie; per tale motivo Cibele era anche denominata dea sanguinaria. Vediamo in pratica in cosa consistevano questi riti, che si tenevano in un luogo sacro ed esoterico per eccellenza, il Collis Palatinus, dove il confine tra Cielo e Terra cessava creando una fusione con il Tutto. Il profumo dell’incenso si diffondeva nell’aria, mentre il suono fragoroso dei cembali, dei flauti, dei timpani, dei dischi metallici e dei rombi accompagnavano il culto orgiastico – da orgiaismo, celebrazione di qualunque azione sacra misterica, come i misteri dionisiaci, nei quali l’azione sacra sconfinava nel parossismo – nel corso del quale i sacerdoti, giunti nel momento di maggiore esaltazione, si infliggevano profonde ferite e in alcuni casi si autoeviravano. Nonostante Cibele non fosse ritenuta una divinità straniera, dal suo sacerdozio venivano esclusi i cittadini romani e le cerimonie a lei dedicate, a parte la levatura pubblica del suo simulacro, erano assolutamente segrete e private. Le uniche feste aperte al popolo in onore della dea, erano i ludi Megalenses. Anche il dio Attis era soggetto a celebrazioni in suo onore, officiate da sacerdoti–iniziati venuti dall’Oriente che si esprimevano in una lingua incomprensibile per i Romani. L’inizio dei festeggiamenti veniva chiamato Canna intrat (la canna entra), presieduta dai Cannophori e gli Arcigalli, gli eunuchi che avevano raggiunto un elevato grado di purezza interiore. I Cannophori sventolavano lunghe canne, allo scopo di ricordare il dio che era stato abbandonato neonato tra le canne che crescevano lungo le rive del fiume Sangario (da notare le analogie tra Attis, il Mosè biblico e i gemelli Romolo e Remo). La sacra cerimonia proseguiva ricordando l’amore tra Attis e la dea Cibele. Il suono di timpani e tamburi si faceva sempre più forte e alla fine il rito prevedeva il sacrificio di un toro, simbolo di fecondità, come si evince anche dal culto di Mitra, altra divinità orientale rappresentata nell’atto di trafiggere un toro. Cibele stessa ne aveva sacrificato uno, allo scopo di fabbricare con la sua pelle il primo timpano (strumento a percussione che produce un suono determinato, costituito da una membrana tesa in una cassa di risonanza chiusa inferiormente). Verso sera il corteo si incamminava in direzione del santuario della dea dove si teneva il rito magico dell’Arbor intrat, l’albero che entra, officiato questa volta dai Dendrophoroi, i sacerdoti preposti a portare l’albero sacro. Entrati nel recinto consacrato, i Dendrophoroi tagliavano un pino, il simulacro fallico che alludeva all’evirazione e morte di Attis. L’albero, avvolto in bende di lino e ornato da viole profumate e seguito dalla statua di Attis, veniva portato poi verso il luogo dove in una fossa molto profonda sarebbe stato calato, simboleggiando in tal modo il corpo privo di vita del dio. Il giorno seguente i sacerdoti si autinfliggevano punizioni corporali, si flagellavano e sanguinavano copiosamente a causa della lacerazione delle carni. Nonostante il recente divieto imposto dal Senato di Roma, qualcuno si evirava al fine di avvicinarsi interiormente alla dea Cibele (fu proprio lei dopo essere stata tradita da Attis, ad evirarlo mortalmente). Al di là dell’aspetto cruento Cibele era dispensatrice d’amore e protezione, fertilità e solidarietà. Molti erano i templi in cui si praticavano culti di origine orientale. Basti pensare al mitreo situato alle spalle del Palazzo Barberini e scoperto nel 1936. L’edificio fu ricavato nel III° secolo d.C. da una fabbrica più antica. Notevole e ricca di fascino è la decorazione che appare sulla parete di fondo: nella scena principale è rappresentato il dio Mitra in atto di uccidere il toro, alla presenza di due portatori di fiaccole, i Cautes e Cautopates. In alto è visibile la volta celeste con i segni dello Zodiaco, sui quali campeggia ancora una volta l’immagine del dio. Le allusioni astrologiche e alchimiche appaiono evidenti. Una serie di riquadri, posti a fianco della rappresentazione principale, contengono le scene più significative legate alla storia di Mitra. Grazie a questo mitreo è stato possibile ricostruire a livello mitologico e rituale, il culto segreto di una delle religioni maggiormente diffuse nella Roma del III° secolo d.C. Il velo del tempo, soglia antica di vecchi miti e di Dèi, sta calando di nuovo celando agli occhi profani,  impreparati a comprendere, l’ermetico mondo che nei secoli fu fecondo, germe di sapienza che mai verrà disseccato, fino a che la fiamma viva della Conoscenza arderà copiosa sul buio dell’ignoranza e della corrente volgare.