Ogni respiro, ogni battito di cuore; ogni giorno e ogni notte; ogni ciclo di luna e di sole, adombrano la stessa Legge.
L’eterna onda di crescita e decrescita, di vita e morte, è presente in ogni dove: l’uomo inspira, e aria e spirito vitale nutrono il suo essere. L’uomo espira dopo aver trasformato in se stesso ciò che giunge dall’esterno, e restituisce al mondo ciò che per lui sono scorie, affinché il mondo stesso le trasformi nuovamente, in eterno ciclo vitale. Così è per la nutrizione, per l’acqua che evapora e diventa pioggia, per le carcasse che rientrano nel ciclo organico e nutrono la terra.
L’uomo dorme e rigenera la mente e il corpo; quindi si sveglia, vive e agisce.
Nient’altro che stati di sonno e di veglia sono la vita e la morte.
Poca cosa sono le parole che tentano di svelare l’inspirazione ed espirazione del cosmo in tutte le cose: quando questa consapevolezza appare, essa è simile a una visione immateriale, l’improvvisa percezione di un tenue filo – Spirito vitale – che lega ogni essere nella sottile Legge dell’analogia sintetica. Sintesi è, infatti, questo possente e sottilissimo spirito che tutto compenetra, che emerge e si mostra nell’eterno respiro dell’Essere-Universo, Uno e molteplice. In ogni luogo, allora, l’occhio della Mente potrà percepire l’eterna e simultanea azione di forze contrarie di generazione, accrescimento, declino e distruzione.
Dinnanzi a questa visione che dispiega le sue ali in cielo e in terra, l’uomo può fermarsi – estasiato – alla contemplazione, oppure proseguire, dopo attenta riflessione, nella terra di Nessuno.
Egli stesso, infatti, è parte ed incarna a sua insaputa la grande Legge Armonica del “solve et coagula”, ma il portarla a consapevolezza implica incarnare la stessa azione perpetua dello Spirito Vitale e quindi, per analogia, identificarsi con lo Spirito stesso.
È dato, all’uomo, di compiere un tale balzo in avanti nella sua evoluzione?
L’aspirante, molto prima di raggiungere la visione sintetica qui descritta, compie un atto che potrei definire eroico: egli osa, non perché già sappia, ma per conquistare la possibilità di “essere”. Non ha prove, all’inizio, né trova alcuno che possa dargliele, sull’esistenza e realtà di tale possibilità: ben presto egli comprende che la prova non si dà, ma si conquista da sé e per sé.
È per questa ragione che il Fuoco si considera innato, che si dice che “la magia non è per tutti”: di fronte all’ignoto, l’unica cosa che può sospingere in avanti l’aspirante è una spinta del suo Essere.
Allo stesso modo, mano a mano che l’Essere-Legge si spoglia dei suoi veli all’occhio della Mente, il Fuoco di chi osa può, ad un certo grado, sentirsi appagato e fermare la lenta corsa dell’evoluzione umana, oppure sentire l’esigenza intima di proseguire e trasformarsi ulteriormente.
Di fronte alla Visione Sintetica del mondo, raggiunta attraverso una lunga e lenta purificazione dell’essere, l’uomo si trova dinnanzi alla Grande Rinuncia, che Don Juan e i suoi seguaci amavano chiamare “perdita della forma umana”.
Per un essere umano, infatti, entrare consapevolmente e per gradi nella vita dell’Essere-Sintesi significa anzitutto Morte. Questa Morte è spesso descritta da testi più o meno religiosi, più o meno esoterici, e il simbolo più vicino alla sua vera essenza è la crocifissione di Gesù di Nazareth, affinché la sua morte partorisse Cristo risorto.
Le umiliazioni che Gesù subisce sulla croce (e nella strada sul Calvario) rendono l’idea di ciò che accade nell’essere umano: il dubbio e la disperazione nel suo grido – “Padre, Padre, perché mi hai abbandonato?” – rispecchiano lo stato di negritudine dell’animo, spaventato e sofferente, che assiste al crollo del suo mondo, che si allontana in volontario esilio – non fisico, ma un esilio nella partecipazione emotiva alla sua vita! – da tutto ciò che amava e da se stesso. Il crollo delle illusioni e delle false certezze non risparmia nulla, e nell’intimo di colui che ha osato si fa notte.
La prima, grande prova, lascia quindi l’uomo solo sulla croce, a chiedersi se tutta questa oscurità non sia la sua punizione all’aver troppo osato.
Ma sfogliando le pagine di un libro o parlando con un Fratello in cerca di consolazione, egli troverà sempre queste stesse parole: rallegrati, quando vedi il Nero.

“Qualcuno vola via, io volo via da voi, o uomini.
Io non sono della terra, io sono per il cielo;
o tu, Neter della mia terra, il mio Ka è con te,
poiché io ho volato in alto nel cielo come un airone,
io ho baciato il cielo come un falco,
io ho raggiunto il cielo come una locusta che nasconde il sole.”
[Testi delle Piramidi, 467 §890-892]

A questo punto, torna in scena come sempre il Fuoco innato: nella notte dell’anima, l’aspirante può perdersi nell’autocommiserazione e nella disperazione, può interrompere spaventato ogni suo lavoro, oppure può proseguire. È sempre il fuoco innato a determinare fino a che punto un uomo sia in grado di proseguire.
Continuando il lambiccare interno, senza la spinta “vera” per risalire che l’essere trova al suo interno, è inutile sperare che la negritudine passi da sola: la trasformazione si attua per Volontà.
È fondamentale, in tale periodo, astenersi dal rifugiarsi in vecchi vizi per annebbiare il dolore: esso va affrontato con lucidità, perché il “martirio” è una scelta e la rinascita pure.
Ecco dunque l’aspirante ritirarsi, ora più che mai, nella solitudine e nel silenzio del suo laboratorio, dove vede chiaramente le sue pecche, e lavare i suoi panni con un fuoco che non brucia.
In questo caso il fuoco indica il mezzo purificatore che fa passare la materia da stati di densità a stati di rarefazione. Stiamo dunque assistendo a una sublimazione dell’Essere, che trasforma se stesso. A questo punto, quell’inizio di distacco – separazione – che prima della Morte si manifesta nella paura del cambiamento e nella lotta interna, diviene poco a poco una condizione naturale di pace e imperturbabilità. La lotta inizia a pacificarsi, come se i due contendenti – uomo terreno e uomo celeste – si fossero in effetti annientati, fondendosi infine in un unico “germe d’Essere-sintesi” creato dalla Volontà, dal Fuoco e dal Lavoro: l’uomo.
L’uomo comune, infatti, non può vedere la realtà per ciò che essa è: davanti al suo sguardo, lenti deformanti ingigantiscono o fanno scomparire – a seconda dei casi – gli eventi nella loro oggettività, per far spazio a “realtà soggettive” in cui l’individuo diventa vittima o carnefice, perseguitato dalla sorte o dagli altri. Nella propria “realtà soggettiva” ogni uomo si assolve dai propri crimini distorcendo, persino nella sua stessa memoria, i fatti accaduti oppure si condanna all’inferno del senso di colpa, ma raramente la lucidità della sua mente riesce a sbrogliare la caotica matassa emotiva per confrontarsi neutralmente con ciò che lo circonda: ciò che lo perseguita, in realtà, è la sua stessa immagine, proiettata e distorta ovunque si dirigano i suoi passi. Ed è questa stessa visione che lo spinge a ergersi a giudice di chi lo circonda, quasi che puntare il dito su un altro essere e accertare le sue debolezze serva a lenire l’occulta vergogna del sapersi imperfetto, fantomatico “Guardiano della Soglia” alla cui vista ogni uomo fugge e si ribella: quanto più questo senso di vergogna è radicato e nascosto, tanto più l’attacco verso il prossimo è violento, incontrollato e – in una parola – egoico.
Lungo la Via di coloro che sentono la necessità di liberarsi dall’umano circolo vizioso, poco a poco la visione spietata di sé, per lungo tempo chiusa nel dimenticatoio, si appalesa nella sua cruda verità. E a questo punto, mentre i meccanismi interiori si disvelano e il ricercatore rimane nudo davanti allo specchio, inizia ad accadere qualcosa di sorprendente: durante la morte della personalità, un’altra e più profonda identità risorge, vivificata. In questo frangente l’uomo comprende il significato dell’antico adagio: “uccidere il vivo e vivificare il morto”.
Tra i molti che cercano, infatti, qualcuno ha dentro di sé un Fuoco innato a spingerlo e a fargli sentire la necessità di trasmutarsi. Alcune persone, prima di trovare in una Via lo strumento per appagare la propria sete, sono letteralmente tormentate da questo indefinito e perenne senso di insoddisfazione nei confronti di una vita che sentono di vivere in maniera superficiale e inadeguata, come se mancasse qualcosa: loro stesse. Sul frontone del Tempio era scritto: “conosci te stesso”, e non c’è in realtà altra ambrosia che possa soddisfare la spinta interiore dell’Essere che agogna il risveglio. Prima della battaglia, nessuno di noi sa chi è davvero.
Il giorno in cui questo “Se stesso” si affaccia, liberato dal fumo dell’illusione che occupava sempre il primo posto per l’attenzione, l’uomo scopre, anzitutto, cos’era quella forza imponderabile e occulta che sembrava sospingere i suoi passi verso i giusti incontri, verso coincidenze fortuite; quella forza che disseminava la sua vita di sogni e presagi. Quella forza, era il vero Se stesso: in perenne lotta con l’abitudine, l’educazione, lo scetticismo e il materialismo, adombrato dai meccanismi razionali e le tensioni emotive, il Nucleo era sopravvissuto nell’occulta profondità dell’individuo, in attesa.
La sorpresa di fronte a questa rivelazione è forse pari soltanto alla gioia del procedere senza il pesante fardello che la personalità impone, e assistere finalmente allo spettacolo della vita reale, in cui l’uomo non si sente più vittima o giudice, ma semplicemente Se stesso.
Quel Fuoco, quella spinta innata verso il Risveglio, risplende ora nella sua nudità, da “Angelo custode” diventato “Io”, da proiezione esterna e mistica alla progressiva guarigione dalla più grande dissociazione della storia dell’essere umano, chiamata nei testi religiosi “la Caduta”.
Ecco, quindi, che tutto ciò che l’individuo subiva dal mondo lunare diventa – ai suoi occhi – ciò che sempre è stato: un riflesso imperfetto del Pensiero dell’Essere-Sintesi, non più causa di ogni azione della sua vita ma mare su cui navigare, vita impulsiva che più non travolge la capacità di discernimento. Finalmente separato dall’ipnosi continua, dal perenne incantesimo di Maya e d’Astarte, egli per la prima volta contempla la seconda – e non certo ultima – Soglia del suo viaggio, un primo barlume di Verità che discende dall’Intelligenza: la Vita.
La vita del mondo si palesa dinnanzi allo sguardo rinnovato e l’anima sembra bisbigliare: “cos’è questa pace che sento nell’aria, nella terra? Cos’è questa nuova armonia, ché la Terra pare respirare un efflato che non conoscevo, e sento il cuore pulsante dell’Essere in ogni cosa?”
Il pianto dell’anima, lontana da Casa, sembra così sfumare quando si avvede che un frammento dell’Unità si svela anche qui, nel reame della materia, e ammicca dinnanzi al cuore di chi sappia scorgerlo e l’avvolge, lo riempie, lo rinnova.
Una Legge, prima soltanto conosciuta attraverso la testimonianza degli Autori, forse intuita ma non vissuta, sembra risplendere e offrirsi allo sguardo. E per la prima volta, l’uomo contempla il primo frammento dell’Anima Mundi, e scopre cosa voglia dire “equilibrio”: centro della sua croce, perno tra la sua materia grave e sottile, egli s’avvede che gioie e dolori rimangono sullo sfondo e più non toccano il suo nucleo, immobile nella sua pace.
L’uomo, intimamente, sa che questa non è affatto la fine ma soltanto un nuovo inizio. I suoi passi si fanno umili nell’accedere alla nuova visione del mondo, che dispiega un senso di perfezione e meraviglia, e ora sa che le piccole azioni degli uomini non sono date dalla cattiveria, ma soltanto dall’ignoranza di chi non ha mai cercato, dalla frustrazione di chi soffre senza rendersene conto e senza potersi liberare. Ecco che egli non può più giudicare l’umanità e lungi da lui sarà mettersi in cattedra, perché ora sa bene che chi sceglie di sapere cercherà, chi ha bisogno di aiuto verrà a chiederlo, e per gli altri non vi sarà che il rispetto della loro libertà di vivere la vita come preferiscono, gioendo o anche soffrendo, poiché alcuni uomini agognano l’autodistruzione più ancora della felicità, e anche questa è una scelta che va rispettata.
Ermete racconta ad Asclepio la sua rinascita, e io qui ruberò le sue parole perché sento di non poterle eguagliare in chiarezza, verità e bellezza.
“Che devo dirti, figliolo? Non ho da dirti che questo: vedendo in me una visione immateriale, prodotta dalla misericordia di Dio, sono uscito da me stesso per trasferirmi in un corpo immortale, e adesso non sono più quello che ero prima, ma sono stato generato nell’Intelletto. Questa cosa non la si può insegnare, né la si può vedere con questo elemento materiale creato grazie a cui quaggiù è possibile vedere. Perciò, fra l’altro, mi sono disinteressato della mia forma composta precedente; non ho più colore né tatto né misura, ma sono ormai estraneo a tutto questo. Ora, figliolo, tu mi vedi con gli occhi, ma non puoi comprendere quello che io sono guardandomi con gli occhi del corpo e con la vista sensibile: non è con questi occhi che ora mi puoi vedere, o figlio.”


Non appena la soglia del Silenzio si schiude, l’intuizione inizia a spaziare in una conoscenza soggettiva della Legge e della vita: Legge e Natura s’intrecciano davanti allo sguardo come la trama e l’ordito della creazione, in perenne armonia secondo il dettame dell’Intelligenza. Ma la caduta dell’Essere-Uomo nella materia, la sua perenne fascinazione verso il possesso l’ha inevitabilmente allontanato dalla percezione della vita Universa, concetto vivente sul quale invece dovrebbe soffermarsi ogni volta che l’inquietudine lo attanaglia.

Ricorriamo a un esempio: l’uomo è un’arpa che suona secondo il suo desiderio, accordata al momento della nascita e poi mai più portata a intonazione. Il diapason in grado di accordarla è la Legge; entrato in vibrazione con la Legge, l’uomo diventa il terzo termine di questo triangolo, e l’Intelligenza diviene operante attraverso di lui nella manifestazione naturale. Ma come accordarsi alla Legge? Molti Autori sinceri hanno già detto e ripetuto che non è cosa che si possa insegnare, potendosi soltanto scoprire da sé, ma chi scrive vorrebbe provare a portare l’attenzione su ciò che ha sperimentato: avete mai provato a correggere una pagina di conti matematici in cui il risultato è sbagliato? È molto più difficile trovare l’errore che girare pagina e ricominciare i conti da capo. Ecco, quindi, il punto di partenza: il Silenzio come pagina bianca. In una quiete psichica ed emozionale lentamente, nel corso del tempo, affiora qualcosa d’altro: una sensazione viene isolata, serena e bastante a se stessa, una pace senza causa che dimora nel profondo e ovunque, come fosse la prima e l’ultima cosa esistente. Ecco il punto di partenza: lo stato d’essere che nel silenzio si schiude e lascia sulle labbra la dolcezza, una pace che sazia ogni inquietudine, la medicina per ogni dolore. Filalete disse: "l'oro sarà dunque il solo, vero e unico principio per produrre oro"… ecco dunque l’inizio: visita interiora terrae. Nel buio del ventre della terra, lì dove sembra mancare l’aria e pare di sprofondare nell’oscurità, splendono i filoni del prezioso metallo, custoditi dalla roccia. Una pagliuzza di esso basterà per essere animato con la nostra acqua, la sola in grado di rendere l’oro resistente al fuoco, giacché è la sola che per sua natura sopporti le più alte temperature.
Ma ricorda sempre: soltanto dall’oro potrai produrre altro oro. Se quest’oro non l’hai trovato, continua a spaccare la roccia e a togliere la sporcizia, altrimenti ogni lavoro sarà vano perché non animerai altro che scorie, e da un seme di mela non nasce un pero.
Cosa poi accada, in questo Athanor, è più facile osservarlo che spiegarlo: l’essenza animata acquista ad ogni imbibizione una sua propria mobilità e capacità di penetrazione, ed essa arriva ad espandersi e rinserrarsi a volontà, ad elevarsi verso altezze in cui le grida del mondo non giungono.
Come un uccellino in procinto di rompere il guscio, covato dal calore della madre, attende il giorno in cui i suoi occhi vedranno, in cui le sue ali si libreranno ad altezze oggi soltanto intraviste e sognate: attende il giorno in cui la sua natura sarà manifesta.

“Guarda, lui è nato! Guarda, lui è messo insieme! Guarda, lui è manifesto!
Con che cosa dobbiamo rompere il suo uovo? Dicono i Neteru, […]…
È lui che romperà l’uovo e dividerà il ferro…
Guarda, il re ha rotto l’uovo!”
[Testi delle Piramidi, 669]


Per mezzo di queste pagine, spero che il lettore rifletterà su alcuni concetti:
- che l’Opera umana non è una ricetta ma l'andamento di essa, oltre che da retta pratica e retta interpretazione, dipende dai presupposti (ciò che si è), e specialmente dal modo in cui si riversa il proprio sangue e la propria vita in ciò che si fa.
- che l'uomo spesso si avvicina a tale strada con l'intento di possedere un potere o di vincere la morte, mentre ciò che si può ottenere è “soltanto” la libertà, pagata con la moneta sonante della rinuncia alla schiavitù.
- che lentamente, come una donna incinta di pochi mesi, si "avverte" di portare in sé una nuova vita.

Questo lambiccare escludendo ogni altra distrazione, conservando un regime di ordine, neutralità e gentilezza, esalta il principio occulto che va liberandosi, permettendo all'attenzione di osservarlo. E giorno dopo giorno la sua profondità si schiude, come un bocciolo di rosa che apra i suoi petali secondo i suoi tempi. Allora il buio non è più muto e il silenzio una culla di beatitudine, e aleggia eternamente, in sottofondo alla vita, il compagno grazie al quale l’uomo non è mai solo.
L’Essere partecipa, con la nascita novella, a una vita fino ad allora preclusa, animato dal sale della sua nuova saggezza resa più forte dall’asprezza della via che s’inerpica sulle montagne, una vita in cui la Natura è diretta espressione della Legge ed esse vibrano e vivono nell’Intelligenza e secondo l’Intelligenza, in uno spettacolo che oggi l’uomo subisce senza avvedersene, ma che domani potrà contemplare e comprendere per dimorarvi, come le stelle dimorano nel firmamento.
E oggi che questo Essere è ancora bambino, altro non si può fare che nutrirlo col cibo che gli spetta: la propria vita, il proprio sangue, come a dire: "questo ero io, questa era la mia vita, e tutto ciò che sono lo metto sul piatto affinché sia reso sacro nell'Opera".
Non c'è altro modo che lasciar andare e nulla voler salvare: se stringi il pugno non hai niente, ma con la mano aperta tu possiedi tutto. Così, tuo figlio mangerà la tua carne - tu che sei sua madre e a causa sua muori - , non avendo tu altro da offrirgli, e ciò che sei scorrerà, trasformato, nelle vene di un nuovo Essere... e tu stesso, abbandonato ogni timore, scivolerai fluido nell'anima del mondo senza frastuono, avendo scoperto nella morte, la vita.
A questo punto ricordo che “l’ascendere alle stelle”, nei culti egizi, simboleggiava la conquista della “vita eterna”, accessibile soltanto agli Akhu (i glorificati), essendo le stelle eternamente armoniche nel loro moto e identiche a se stesse, imperiture e incorruttibili:

“Pepi è stato generato da suo padre Atum,
prima che il cielo esistesse,
prima che la terra esistesse,
prima che gli uomini esistessero,
prima che gli dei nascessero,
prima che la morte fosse creata…
Il re sfugge il suo giorno di morte
così come Sutesh sfugge il suo giorno di morte… […]
Pepi non morirà a causa di alcuno,
poiché Pepi è una stella imperitura”.
[Testi delle Piramidi, 571. 2300 a.C.]


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