Nel precedente articolo abbiamo presentato ai lettori le tappe salienti del percorso umano e iniziatico di Giuseppe Balsamo, entrato nel novero dei grandi iniziati con il nome di Alessandro Conte di Cagliostro. Quando  giunse a Roma, come già spiegato, conobbe e sposò Lorenza Feliciani, una ragazza di Trastevere. Nella Città Eterna, a quel tempo, il clima di intolleranza e l’ombra dell’inquisizione dominavano incontrastati e la paura serpeggiava tra i massoni e i liberi pensatori. Tuttavia, la ricerca del divino finalizzata al raggiungimento dell’illuminazione, posta in atto mediante un cammino di ordine ermetico ed esoterico, non si arresterà e nonostante i rischi, proseguirà in nome di un alto ideale improntato alla scoperta della Verità Assoluta. Cagliostro, nel frattempo, si era recato a Londra dove si  iscrisse alla Loggia della Speranza. 

Qui fu edotto sulle conoscenze segrete dell’Ordine. In seguito, la coppia raggiunse Parigi e fondò la prima loggia ispirata ai Misteri e ai culti magici dell’Antico Egitto. Lorenza assunse il nome iniziatico di Serafina Cagliostro (forse legato alla dea egizia Serapide) e il grado di Venerata Grande Maestra della Loggia di Massonica di Iside. Questa giovane popolana trasteverina, nata da una famiglia povera che dimorava in una casa fatiscente, in via delle Grotte, cambiò totalmente stile di vita e seguì il marito nella nuova entusiasmante avventura volta a rinvenire le autentiche radici dell’antica religione egiziana. Nel frattempo, la fama di Cagliostro aumentava in maniera esponenziale, anche grazie alle prodigiose guarigioni che aveva operato, al suo dono profetico, alle doti di chiaroveggente. Celebri anche le sue operazioni magiche, specialmente le famose cene dei morti, nel corso delle quali, a quanto si dice, evocava personaggi del passato. Importante, inoltre, la rielaborazione delle tecniche divinatorie eseguite per mezzo di una sfera di cristallo, già note nell’antico Egitto. Fu proprio Cagliostro a introdurle in occidente con alcune varianti. Per questa operazione egli si serviva di una fanciulla vergine detta pupilla; ella era preposta a fissare la sfera fin quando non raggiungeva uno stato di allocoscienza (alterazione della coscienza) e incominciava a vedere sulla superficie del globo immagini, simboli e figure. Cagliostro era posto alle sue spalle, e la interrogava per cercare di interpretare il futuro attraverso le visioni astrali che ella vedeva con gli occhi della mente e che lui stesso decifrava. Ancora oggi questa pratica è conosciuta come Sfera di Cagliostro. Il più delle volte lo strumento per la divinazione era costituito da un vaso rotondo colmo d’acqua e illuminato nel retro da una candela. Il nuovo rito egiziano di cui Cagliostro era Gran Cofto aveva affascinato nobili e intellettuali, anche grazie alle sue iniziazioni e alla rituaria che contemplava la rigenerazione del corpo e dell’anima. Fu ricevuto da re e regine. Basti pensare al sovrano di Varsavia che lo accolse trionfalmente a corte. Notevole diffusione ebbero pure in quel periodo il misterioso Elisir di lunga vita, il vino egiziano, e le polveri rinfrescanti, per mezzo dei quali il sommo Adepto aveva compiuto strabilianti guarigioni senza richiedere alcun compenso. In Francia entrò in contatto con personaggi importanti, come il filosofo Lavater, che nutriva per l’iniziato una profonda ammirazione, e il gran elemosiniere del re, il cardinale di Rohan, che a sua volta esternò i sensi della sua stima al taumaturgo siciliano.

 

L’affaire du collier de la reine

 

Assieme alla fama arrivarono i primi guai. Cagliostro, infatti, venne coinvolto suo malgrado in uno scandalo che investì la corte di Francia con inaudita violenza e passò alla storia come L’affaire du collier de la reine (L’affare della collana della regina). Non entreremo nel merito della vicenda che chiunque potrà approfondire per proprio conto. Ciò che ci preme sottolineare è che la congiurà influirà in maniera quasi determinante nel futuro del Gran Cofto. Protagonisti di questo complotto ai danni della regina Maria Antonietta, il cardinale di Rohan e la contessa Jeanne Valois de la Motte, un’abile e astuta cortigiana che vantava una nobile quanto presunta discendenza dalla celebre casata dei Valois. Lo scandalo in questione diffamò la regina e aprì la strada alla rivoluzione francese. Cagliostro, estraneo ai fatti, era colpevole solo di intrattenere rapporti di amicizia con Rohan e di avere consigliato a quest’ultimo di rivelare la truffa al sovrano. Tuttavia, la contessa de la Motte (fidata consigliera della regina) accusò apertamente Cagliostro indicandolo come unico artefice dell’inganno. Per questa ragione fu arrestato assieme a Lorenza e condotto alla Bastiglia. Durante la prigionia si rese conto della sua popolarità: i francesi avevano organizzato manifestazioni di solidarietà e quando venne scarcerato fu accompagnato a casa da una folla festante che lo acclamava. Il Parlamento di Parigi riuscì ad appurare l’estraneità dei coniugi Cagliostro dalla squallida vicenda eppure, i monarchi decisero che era meglio esiliarli. Per tale ragione la coppia riparò a Londra. Qui il Maestro scrisse una missiva di fuoco indirizzata al popolo francese, che denunciava la corruzione del sistema giudiziario e profetizzava la caduta della monarchia  e l’instaurazione di un regime moderato. Da parte sua il governo francese contrattaccò, diffamandoli e diffondendo le vere generalità dei due massoni, accusandoli di essere dei volgari ciarlatani. Il compito fu affidato a un certo Thèveneau de Morande il quale, una volta stabilito che dietro l’identità di Cagliostro e Serafina in realtà si celavano Giuseppe Balsamo e Lorenza Feliciani, vergò alcuni articoli infamanti conditi a base di raggiri e di basse speculazioni avvenute, secondo Morande, durante i passati soggiorni londinesi dei coniugi. Cagliostro fu costretto a fuggire nuovamente e a chiedere asilo al banchiere di Sarrasan e di Lavater in Svizzera. Sua moglie, invece, rimase a Londra e in breve fu persuasa a rilasciare scottanti dichiarazioni che riguardavano suo marito, che rischiavano di comprometterlo e danneggiarlo seriamente. Per fortuna Cagliostro le fece sapere che doveva raggiungerlo in Svizzera, e ciò si verificò appena in tempo per farle ritrattare le accuse.

 

Cagliostro incontra Casanova

 

Prima ancora di raggiungere la notorietà, Cagliostro e sua moglie conobbero il celebre Giacomo Casanova (Venezia 1725 - Boemia 1798), cultore di Scienze esoteriche, probabile appartenente alla massoneria e all’Ordine dei Rosa + Croce. L’uomo, accusato di eresia, era passato sotto i rigori dell’inquisizione religiosa e richiuso nelle terribili carceri veneziane, i Piombi, che prendevano il nome dalle lastre di piombo che ricoprivano il tetto. Da questo luogo, oscuro e tenebroso, le cui sofferenze risultavano inenarrabili, riuscì a fuggire dopo quindici mesi, come testimonierà lui stesso nella Storia della mia fuga. E’ il 1769 quando Casanova incontra per la prima volta Cagliostro e Serafina, ad Aix-en-Provence, durante un soggiorno di convalescenza causata da una forte pleurite. I coniugi si recarono in quella città di ritorno da un faticoso pellegrinaggio a San Giacomo di Campostella in Galizia, dove erano giunti dopo avere percorso a piedi diversi chilometri. Avevano deciso di sostare ad Aix-en-Provence con lo scopo di rifocillarsi e riposarsi. In seguito, ripresero il cammino per recarsi a Torino, a visitare la Sacra Sindone. L’episodio è riportato da Casanova nel capitolo CXXX della Storia della mia vita (1789-1790), importante documento biografico che, assieme alle Memorie costituisce, grazie alla sua attendibilità, una prova testimoniale di notevole spessore. Ecco il racconto di Casanova: “[…] Un giorno, a tavola, il discorso cadde sopra un pellegrino e una pellegrina che erano giunti da poco. Essi erano italiani e venivano a piedi da San Giacomo di Campostella, in Galizia; e dovevano essere persone di alto rango perché arrivando in città avevano distribuito abbondanti elemosine. Si diceva che la pellegrina fosse molto bella, di circa diciotto anni, e che, molto stanca, appena arrivata era andata a dormire. Il pellegrino e la pellegrina abitavano lo stesso albergo; il che ci rese tutti molto curiosi. Nella mia qualità di italiano dovetti mettermi alla testa della brigata per andare a fare una visita a quei due personaggi che dovevano essere due fanatici o due bricconi. Trovammo la pellegrina sprofondata in una poltrona, con l’aria di una persona affranta dalla fatica. Ella era singolarmente interessante per la giovane età che dimostrava, per la sua rara bellezza velata da una espressione di strana malinconia, e per un crocifisso di metallo giallo, lungo sei pollici, che teneva tra le mani. Al nostro apparire ella posò il crocifisso e si alzò in piedi per farci  una graziosa accoglienza. Il pellegrino, occupato ad attaccare delle conchiglie al suo mantello di tela cerata, non si mosse. Posando gli sguardi sulla sua donna, parve volerci dire che non dovevamo occuparci che di lei. Dimostrava ventiquattro o venticinque anni. Era basso, ma ben fatto: sulla faccia, quasi spettrale, aveva i tratti dell’arditezza, della sfrontatezza, del sarcasmo e della bricconeria. Il volto della sua donna, al contrario, rivelava la nobiltà, la modestia, l’ingenuità, la dolcezza e quel pudore timido che dà tanta grazia alle giovani donne. Quei due esseri, che non parlavano francese se non per quanto era loro indispensabile per farsi capire, respirarono quando rivolsi la parola in italiano. La pellegrina, quantunque non ce ne fosse bisogno perché la sua bella parlata lo rivelava a sufficienza, mi disse che era romana. Il suo compagno mi parve napoletano o siciliano. Il suo passaporto, datato da Roma, lo qualificava col nome di Balsamo. Ella si chiamava Serafina Feliciani, nome che non cambiò mai; mentre il suo compagno lo ritroveremo dopo dieci anni sotto quello di Cagliostro. […]L’indomani il marito di costei venne a chiedermi se volevo salire a colazione con loro o se preferivo che essi scendessero da me. Sarebbe stato scortese rispondergli: né una cosa né l’altra. Gli dissi che mi avrebbe fatto piacere se fossero discesi. Durante la colazione trovai modo di chiedere al pellegrino quale era la sua professione, ed egli mi rispose che era disegnatore a penna, specializzato nel chiaroscuro. La sua arte consisteva nel copiare delle stampe, non nel farne; ma mi assicurò che vi eccelleva, e che era in grado  di copiare una stampa in modo da rendere impossibile distinguere la copia dall’originale. […] Mi fece vedere una copia di Rembrandt, più bella, se possibile dell’originale. Malgrado ciò mi assicurò che il suo mestiere non gli rendeva tanto da vivere; ma io non lo credetti. Egli mi faceva l’impressione di uno di quegli uomini di talento poltroni, che preferiscono il vagabondaggio alla vita laboriosa”. Nel giugno del 1778, Casanova, Cagliostro e Serafina si ritrovarono a Venezia. A quel tempo, Balsamo si faceva chiamare Alessandro Conte di Cagliostro.  I veneziani erano affascinati e incuriositi dall’uomo che era riuscito a conciliare i rudimenti della medicina e della farmacopea con la Scienza alchemica, la Grande Opera. Rimasero soggiogati dal suo indubbio carisma e contribuirono a incrementare il suo successo e la sua fortuna ospitandolo nei salotti più esclusivi e alla moda. Quando Casanova rivide Cagliostro, memore delle sofferenze patite ai Piombi, lo avvisò che circolavano delle voci poco piacevoli sul suo conto. Veniva additato come un eretico e un nemico della religione, un ateo e un blasfemo. Inutilmente, il gentiluomo veneziano tentò di dissuaderlo nel suo proposito di tornare a Roma, dove l’inquisizione si era fatta più intollerante e il pericolo di un’inchiesta non risultava improbabile. Ma al culmine della fama e dell’ascesa sociale, Cagliostro non terrà conto degli avvertimenti ricevuti.

 

Il tradimento di Lorenza: l’ombra dell’inquisizione

 

Le parole di Casanova si rivelarono profetiche, e quando la notizia della cattura di Cagliostro venne divulgata dai giornali, suscitò scalpore in tutta Europa. L’arresto fu eseguito a Roma, il 27 dicembre 1789, per ordine del papa Pio VI il quale profondamente turbato dai straordinari poteri attribuiti al Conte e dalle numerose guarigioni di cui si parlava nei resoconti di alcuni testimoni, decise di metterlo nelle mani dell’inquisizione. Il Sant’uffizio fu istituito nel 1542 da papa Paolo III su consiglio del cardinale Gian Pietro Carafa, il futuro papa Paolo IV. Carafa, di ritorno dalla Spagna, dove aveva assistito in prima persona alla repressione del pensiero eretico in modo sanguinoso e sicuramente poco cristiano da parte del feroce inquisitore Tomas Torquemada, prese spunto per la fondazione della futura struttura repressiva. Torquemada, spietato assassino e primo inquisitore, aveva mandato a morte migliaia di presunti eretici. Il più delle volte si trattava di personaggi scomodi, nobili o politici ai quali Torquemada confiscava ogni bene materiale con lo scopo di impossessarsene. Questa era la spiritualità e la carità di coloro che predicavano il regno di Dio basando in realtà il proprio ideale religioso  su un potere temporale corrotto e demoniaco. Responsabile del suo arresto fu la bella Lorenza Feliciani, sua moglie, sacerdotessa di Iside. La giovane donna aveva trovato rifugio presso la sua famiglia e, consigliata anche dai suoi consanguinei, decise di fare importanti rivelazioni sulle attività praticate dal marito e sulle costrizioni che a suo dire era stata costretta a subire: le veniva impedito di frequentare la Chiesa e di andare a trovare i parenti. Come abbiamo visto, già a Londra la Feliciani aveva tentato di denunciarlo ma poi, convinta da suo marito, aveva ritrattato le accuse. Questa volta, aiutata anche dai congiunti (che sottoscrissero numerose delazioni), portò a termine lo scopo che si era prefissata. Pio VI in persona al termine di una riunione alla quale partecipavano alcuni cardinali e il segretario di Stato  Zelada, dopo essersi consultato sulla questione decise di deliberare l’arresto di Cagliostro che fu rinchiuso nelle carceri di Castel Sant’angelo. Era accusato di essere un massone e di propagare l’ideale massonico attraverso la costituzione di diverse Logge di Liberi Muratori, di diffondere pericolosi e fuorvianti principi anticlericali, di rendere noti mediante iniziazione i Misteri ermetici che minavano e sminuivano la verità della fede e, infine, di praticare l’esecrabile arte divinatoria (assai diffusa anche tra il clero che se ne serviva abitualmente), avvalendosi di strumenti il cui impiego era ritenuto contrario alla dottrina cristiana. Una vera e propria farsa che Pio VI, accecato dalle sue idee e dalla lotta alla Massoneria, portò avanti senza discernimento fingendo di non  vedere che le prove, esigue, non erano sufficienti per incriminare il presunto eretico. Cagliostro incarna così la figura del male, anche se nella realtà era lontano anni luce dai sistemi di pensiero dell’epoca, considerati nemici della Chiesa, basti pensare alle elaborazioni culturali di Diderot, D’alambert, Voltaire, Roussou, tanto per citarne alcuni. Davanti alla folla che un tempo lo aveva osannato, vennero bruciati i libri e gli oggetti legati al culto egizio. Nel corso della cerimonia denominata Sermo generalis o autodafè, furono distrutti preziosi manoscritti legati all’Ordine Isideo Egizio fondato da Cagliostro. Condannato alla pena di morte in un primo momento, fu graziato e la sentenza fu commutata nel carcere a vita. Il timore che l’Adepto incuteva non venne mai meno. Per questa ragione, si racconta, non venne dato seguito alla sua eliminazione fisica.

 

Cagliostro giunge a San Leo

 

Il Conte del mistero venne trasferito nella famigerata prigione di San Leo (o Forte di Montefeltro). San Leo è una splendida cittadina montefeltresca posta su un enorme ed invalicabile masso roccioso, praticamente inespugnabile. Ai tempi di Berengario II fu capitale d’Italia e ancora oggi gode di fama imperitura grazie alla figura del grande alchimista, che ha contribuito con le sue gesta a creare un mito intramontabile. Cagliostro fu rinchiuso nella cella del tesoro, così chiamata perché i Duchi di Urbino la utilizzavano per  custodire i gioielli. Successivamente, venne segregato nel pozzetto, una sorta di sepolcro di pietra, un ambiente angusto, lungo circa tre metri e mezzo, alto tre metri e largo altrettanto. L’unica finestra esistente era munita di un triplice ordine di inferriate, con vista sulla pieve e la cattedrale (quasi a obbligare il prigioniero a quella vista a lui poco gradita). In una missiva datata 16 aprile 1791, vergata dal cardinale De Zelada e diretta al cardinale Doria, possiamo leggere: “Ho consegnato questa mia umilissima, perché la faccia pervenire a mani dall’E. V. dall’aiutante de’ Corsi, a cui è stato il trasporto alla fortezza di San Leo di Giuseppe Balsamo, denominato Conte di Cagliostro, per esservi ritenuto sua vita natural durante, senza speranza di grazia, e sotto stretta custodia. Affinché all’E.V. sien noti gli ordini e le istruzioni che per espresso comando di N.S. ho ingiunti a quel castellano, mi do l’onore di accludere copia della lettera, che con questo stesso corso di posta gli dirizzo. Non dubita il Santo Padre ch’egli si farà un attento e premuroso dovere per l’esatto loro adempimento: riposa peraltro intieramente la Santità Sua nello zelo e nell’avvedutezza dell’E.V., persuaso, che non lascerà di prendere tutti i mezzi onde vengano eseguiti i suoi ordini e le sovrane disposizioni”.

 

Cagliostro tra realtà e mito

 

Dalla realtà al mito il passo è breve, per un personaggio come Cagliostro che aveva vissuto una vita tanto avventurosa e ammantata dal mistero. Si narra in proposito che durante la prigionia a San Leo chiese di poter parlare con un confessore. Non uno qualsiasi, ma un prete che abitava lontano e al quale l’alchimista si sentiva molto legato. Quando giunse al Forte di San Leo qualcuno lo scambiò per il fratello gemello di Cagliostro, tanto straordinaria era la somiglianza tra i due. Il prete entrò nella esigua cella del conte e né usci poco dopo con l’aria di chi aveva fretta di allontanarsi. Nessuno sembrò rendersi conto dell’accaduto, ma in seguito, nell’ora in cui solitamente venivano portati i pasti al detenuto, i carcerieri scoprirono un cadavere irriconoscibile che giaceva nel pozzetto. Si trattava del corpo del religioso o di quello del Conte? Non fu possibile stabilirlo. Forse Cagliostro era riuscito a fuggire. Sulla morte dell’iniziato vennero formulate mille ipotesi: qualcuno affermò di averlo visto gettarsi al di sotto della rupe, altri lo videro fuggire su un carro di fuoco, altri ancora dissero che fu avvelenato. Ufficialmente era perito  per un colpo apoplettico, come testimonia un documento a firma dell’Arciprete Luigi Marini che aveva assistito alla sua dipartita: “… Avendo sopportato con altrettanta fermezza e ostinazione i disagi del carcere per quattro anni, quattro mesi, cinque giorni, colto da un improvviso colpo apoplettico, di mente perfida e cuore malvagio, qual era, non avendo dato il minimo segno di pentimento, muore senza compianto, fuori della Comunione di Santa Madre Chiesa, all’età di cinquantadue anni, due mesi e diciotto giorni. Nasce infelice, più infelice vive, infelicissimo muore il giorno 26 agosto dell’anno suddetto alle ore 22,45”.           

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