Sul concetto di una mente inconscia

Per la cultura ‘ufficiale’, che oggi potremmo anche definire ‘mediatica’ e ‘di massa’ (con buona pace dell’antico ideale marxista di una più equa distribuzione del potere tra le diverse classi sociali..!) si è soliti parlare della scoperta dell’inconscio come di qualcosa di relativamente recente nella storia dell’uomo.
Esso, l’inconscio appunto, appare come il frutto tardivo di teorie ed ipotesi ‘scientifiche’ che, a partire dall’impulso epistemologico e sistematizzatore proprio dell’Illuminismo e poi attraverso i rivolgimenti introspettivi del Romanticismo e della Filosofia della Natura, si coagulano sul finire dell’800 in un corpus unitario di nozioni e concetti ad opera di alcuni padri fondatori della scienza psicologica accademica (due nomi per tutti, che non hanno bisogno di ulteriori presentazioni: Sigmund Freud e Carl Gustav Jung); concetti che andranno a costituire le fondamenta delle odierne discipline psicologiche ‘ufficiali’.
Si pensi così al quadro assai composito e variegato di esperienze di ricerca e di studio fiorite nei due secoli precedenti, unite dal comune interesse per la dimensione oscura della mente e per i suoi sconosciuti poteri, di volta in volta caratterizzate da accenti filosofici, medico-terapeutici, trascendenti-spiritualistici: dalle prime esperienze del mesmerismo e del cosiddetto ‘magnetismo animale’ del XVIII secolo, alle formulazioni teoriche degli autori romantici che centrano il focus  sull’individuo e quindi sul rapporto tra coscienza e subconscio (da Goethe e Schelling a Bachofen, a Carus, Troxler, quindi a Schopenauer e su fino al superomismo di Nietzsche);  ai primi studi sul sonnambulismo (Puysegur), sui sogni (Von Schubert), ai movimenti spiritistici, che si diffusero sia in Europa che in America alla metà del XIX secolo ed alla nascita della parapsicologia; alla suggestione e all’ipnotismo della scuola francese di medicina (Charcot, Liebeault), che prepareranno il terreno all’avvento della psicoanalisi freudiana e della  psicologia analitica junghiana.
S. Freud inizia così la scrittura dei suoi famosi casi clinici e lo studio sistematico della propria attività onirica; struttura in seguito una teoria ed una tecnica di cura per i disturbi psichici di natura nevrotica, seguito da una schiera di discepoli tra cui spicca C.G. Jung. Quest’ultimo si caratterizzerà per l’originalità ed il potere di sintesi del suo pensiero, che gli consentiranno di edificare un sistema teorico che riprende la concezione dell’evoluzione psichica e spirituale dell’uomo tramandata dalle dottrine gnostiche, seguendo quindi lo sviluppo del pensiero esoterico e comparando inoltre tali ricerche con uno studio transculturale.

 

Il recupero ‘ufficiale’ del concetto di Archetipo

Potremmo dire (ma questa è in realtà una forzatura dettata in questa sede da esigenze di semplificazione del discorso) che l’inconscio -  cioè la dimensione psichica caratterizzata da un funzionamento prevalentemente istintivo e da dinamiche che non sono sotto il controllo della coscienza -  nella concezione junghiana  possiede una estensione maggiore rispetto a quella  freudiana, assumendo una dimensione sovrapersonale definita dallo stesso Autore come “collettiva”: “..Io definisco la somma di tutti questi contenuti col nome di inconscio personale. Oltre a questo però noi troviamo nell’inconscio le caratteristiche che non sono state acquisite individualmente bensì ereditate, cioè gli istinti intesi come impulsi ad attività che procedono , senza motivazione conscia, da una costrizione interiore. A questi si aggiungono le forme esistenti a priori, ossia congenite, dell’intuizione cioè gli archetipi di percezione e comprensione, che sono una condizione ineliminabile e determinante a priori di tutti i processi psichici…Gli istinti e gli archetipi dell’intuizione formano l’inconscio collettivo. Io chiamo collettivo questo inconscio perché al contrario dell’inconscio prima definito (leggi: “inconscio personale”) esso non ha contenuti individuali, cioè più o meno unici, bensì contenuti universalmente e uniformemente diffusi. L’istinto è un fenomeno collettivo, vale a dire universalmente e uniformemente, che non ha niente a che fare con l’individualità dell’uomo..” (C.G.Jung; op.cit.1928).
Il concetto di Archetipo, che viene quindi introdotto al vasto pubblico della cultura occidentale del secolo scorso dall’opera di Jung, si pone all’interno del corpus teorico junghiano come suo elemento caratterizzante e fondante, in parallelo alla concezione dell’inconscio collettivo, dei complessi psichici, del principio di individuazione e del Sé. Jung sembra derivare il concetto di archetipo da quello di “immagine originaria primordiale”- l’Urbild, enunciato in precedenza da Jacob Burkhardt, anche se altrove ne fa risalire l’idea alla filosofia medievale di Sant’Agostino (in realtà l’espressione “archetipo” si trova in Dionigi L’Areopagita e nel Corpus Hermeticum, ma non è difficile risalire alla filosofia platonica per trovare lo scenario originario che fa da sfondo al concetto, con la contrapposizione tra idea e cosa in sé, passando per Cartesio e Spinoza fino a giungere a Kant, che sembra ridurre l’archetipo al numero limitato delle “categorie” dell’intelletto).
Gli archetipi, secondo la visione junghiana, sono le “immagini universali” della psiche contenute nell’inconscio, sono cioè dei simboli universali attraverso cui si esprime la vita psichica e che consentono lo scambio tra la sua dimensione inconscia e cosciente; in quanto tali essi posseggono e sono apportatori di una elevata quota di energia che liberano in questa dinamica di rapporto e che può di conseguenza essere utilizzata a livello conscio.
In senso cognitivo possiamo intendere l’archetipo come un modello di natura preordinata o uno schema di percezione e risposta universali agli eventi interni ed esterni, che si susseguono in forma diversificata nelle fasi della vita sulla base di un processo di evoluzione psichica dell’individuo tendente alla piena realizzazione delle proprie potenzialità psicofisiche e per il raggiungimento di una condizione dell’essere più armoniosa ed equilibrata.
In senso emotivo ed affettivo, la comparsa o l’irruzione dell’archetipo o di una “esperienza archetipica” possono essere percepiti attraverso un significativo o anche profondo cambiamento interiore, una perturbazione della coscienza che risulta esposta a correnti che ne dinamicizzano la struttura intima e che può essere “inflazionata” da contenuti sovraindividuali che ne orientano  l’esperienza percepita e vissuta.
“..Queste immagini originarie  o archetipi, come le ho chiamate, appartengono al nucleo della psiche inconscia e non possono essere spiegate in base ad una acquisizione personale. Il loro insieme forma quello strato psichico che ho definito inconscio collettivo. L’esistenza dell’inconscio collettivo significa chela coscienza individuale è tutto fuorché priva di presupposti. Al contrario  essa è influenzabile in misura estrema da un presupposto ereditario, a prescindere dagli inevitabili influssi ambientali. L’inconscio collettivo è l’esistenza psichica degli antenati fino alle prime origini. E’ la premessa, il suolo nativo di ogni evento psichico consapevole e perciò è anche un’influenza che compromette grandemente la libertà della coscienza , poiché tende a riportare costantemente sui vecchi binari  ogni processo di coscienza..(..)..L’inconscio collettivo segna un altro dei luoghi in cui la psicologia pura urta contro un dato organico e in cui deve riconoscere con tutta probabilità un dato di fatto non suscettibile di essere psicologizzato, il quale posa su un fondamento fisiologico”. (C.G.Jung,op.cit. 1929).

 

 

L’Astrale e gli archetipi nella tradizione ermetica

Abbiamo fin qui menzionato brevemente alcuni Autori di spicco del pensiero psicologico accademico, ufficialmente riconosciuto, in materia di inconscio collettivo, di archetipo, di immagini istintuali primordiali e quant’altro, per  accostare a questa relativamente giovane tradizione di studi, che ha aperto e diffuso il sapere psicologico moderno, una tradizione ben più antica ma meno conosciuta perché nei secoli volutamente celata alle menti inette e refrattaria alle chiacchiere vuote dei salotti dei benpensanti. Non ci sorprenderemo, quindi, se incontreremo “illustri sconosciuti” (per la cultura omologata del nostro ‘secolo mediatico’!) che dicevano cose simili ed esprimevano i medesimi concetti sulla base di insegnamenti iniziatici che si sono tramandati fin da tempi remoti.
La tradizione esoterica, che si snoda attraverso la storia dell’umanità fin dall’alba dell’uomo, ha definito nei secoli col termine di “Astrale” o “Campo Astrale” ciò che oggi definiamo “Inconscio”: “..Si chiama astrale o campo astrale o zona astrale un campo occulto, ignorato, inaccessibile alla prima mentalità volgare di tutti gli uomini che si occupano della vita oggettiva – Astron, cioè a-stron, non luminoso, celato, nascosto, l’ombra e il suo regno. Astrale quindi è sinonimo di campo oscuro, da cui emergono le forme ideali delle cose o le idee” (G.Kremmerz; op.cit. 1911).
Queste le parole di uno degli esponenti maggiori dell’esoterismo italiano del secolo scorso, che sottolineava poco oltre: “..Un campo inesplorato che appena oggi comincia ad attirare l’attenzione degli psichisti. Questo campo che è in noi e fuori di noi è la riserva da cui la nostra coscienza umana attinge la memoria di tutte le cose viste e conosciute come uno dei sensi fisici. E rappresenta la parte più misteriosa del nostro essere, la camera oscura per così dire della fotografia dei nostri prodotti di origine sensoria, tanto di questa vita che delle precedenti”.
E ancora:”..Il campo astrale , oscuro, misterioso che è in noi, cioè in ognuno degli esseri umani è anche nella sintesi dell’universo. Nell’uomo è la riserva occulta della sua storia, nell’universo è la matrice di tutte le vite vissute, di tutte le forme immaginate, di tutti i pensieri voluti. Il campo o zona o corrente astrale universale comprende in sé i campi parziali di tutti gli uomini..etc.” (ibidem, op.cit.).
Anche il riferimento agli archetipi in quanto strutture innate ordinatrici dell’esperienza psichica che si manifestano per mezzo di emergenze istintuali potenzialmente evolutive, viene adombrato dall’Autore  con il riferimento a ciò che solitamente viene conosciuto col termine generico di “idee innate”:“..Quelle che un gruppo di filosofi chiamò’ idee innate’ che si manifestano spontaneamente nei fanciulli, che insorgono negli adulti nei momenti critici della vita, che in alcune nature prendono la forza dell’ossessione ed in altre quelle della demenza, appartengono al tesoro di questa misteriosa macchina fotografica che edita, ad occasioni determinate, i ricordi”.
Il chiaro nesso di tali idee innate con il concetto di archetipo viene qui rafforzato dal Kremmerz con l’accento posto sul carattere autogenerato e numinoso della esperienza archetipica, una processualità endogena fasica che si attiva in determinati periodi di transizione dell’evoluzione individuale e che sorregge la crescita psicologica e l’ampliamento della sfera spirituale dell’individuo, che può esitare tuttavia anche in disordini mentali di tipo inflattivo e gravi scompensi della coscienza qualora  le profonde correnti dinamiche in gioco e le identificazioni multiple che ne seguono per l’Io cosciente non vengono adeguatamente ridimensionate, sublimate e canalizzate in un processo superiore di sintesi.
La memoria, infine, assume in questo contesto un ruolo di tramite, di “meccanismo evocatorio..” – come ribadisce Kremmerz – “..delle idee o immaginate o foniche o olfattive o tattili o saporifiche, che giacciono inerti nel campo misterioso suddetto..(...).. Ogni uomo nasce con  le sue memorie che ne determinano caratteri, evoluzione e vita, in armonia o in disarmonia coi caratteri genetici dei genitori da cui procede. Ogni uomo può risvegliare la sua individualità storica – conclude l’Autore e noi con lui – quando la contribuzione dell’astralità dei genitori della sua carne o forma presente non costituisce tale un substrato nuovo che inabissa l’antico. Ogni uomo che nasce subendo l’astralità dei genitori, nel periodo della sua educazione nuova amalgama il fattore suo, principale o storico, ai fattori atavici e li cementa con una forma di adattamento all’ambiente, direi con una vernice che è il frutto della sua esperienza pedagogica, e acquista una fisionomia rinnovellata.”
Siamo giunti dunque alle acque del Lete ed all’oblio, che ci rende liberi…di sapere.
Deo Concedente.

 

Riferimenti:
C.G.Jung; Istinto e inconscio (1928)
C.G.Jung, Il significato della costituzione e dell’eredità in psicologia (1929).
G.Kremmerz ; “Nelle tenebre luminose”- articolo per la rivista mensile della “S.P.H.C.I”. (1911)

(Tratto da  Elixir n° 3 con il permesso delle Edizioni Rebis)

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