Quando finalmente fui congedato dall’esercito imperiale, decisi di tornare a Roma. Mancavo da casa da dieci anni ed ero ansioso di riabbracciare mio figlio Enea e la mia sposa Metella. Volevo riassaporare le ampie strade ed i vicoli fumosi, le calende lascive, i combattimenti tra gladiatori, l’odore intenso dei piacula ed il respiro delle viscere animali, nelle quali leggere il fato di uomini e semidei. Il lungo viaggio di ritorno mi aveva spossato, ma non abbastanza da impedirmi di tenere fede al giuramento che prestai al Nume. 

Deposi le armi ed indossai la mia tunica migliore, recandomi al tempio di Marte Ultore, a quel tempo ancora in costruzione. Percorsi a grandi passi la scalinata di marmo lucente, varcando il maestoso ingresso del sacrarium. Una quieta penombra mi accolse e le mie narici furono gradevolmente pervase da un sottile aroma di incenso della Cirenaica. Il tempio era vuoto e la quiete di quel luogo era interrotta solo dal rumore degli scalpellini, intenti a levigare la facciata esterna con un pregevole bassorilievo raffigurante Romolo, nell’atto di seguire con lo sguardo il volo degli uccelli.

Mi diressi verso il monumento numiforme che appariva circondato da bronzei simulacra luporum, al collo dei quali erano state appese ghirlande di fiori ed offerte votive. Guardai la grande statua del Dio. Era possente, maestosa ed austera, ma in verità poco aderente al di lui reale aspetto. «Hai ragione, Julianus!  Quella statua non rende affatto giustizia al Padre nostro». Mi voltai di scatto e fu grande la mia sorpresa quando vidi il volto del mio interlocutore. «Generale!», esclamai. «Voi qui!». Fra le ombre effervescenti e pallide riconobbi distintamente il volto di Marco Calpurnio Vindice. Egli era stato al comando della mia legione. Di quell’uomo rammentavo l’indomito coraggio e la fedeltà alla religione degli antenati. Ricordo che prima di ogni battaglia egli cercava la solitudine in un luogo lontano di clamori dell’accampamento. Vinto dalla curiosità, un giorno decisi di seguirlo a distanza, avendo cura di non farmi scorgere. Giunto nei pressi di una fonte d’acqua che lambiva una fitta foresta, costui smontò da cavallo e si slacciò la corazza, restando con la sola tunica indosso.

Vindice si lavò accuratamente il viso e le braccia, intonando una sorta di cantilena che, per alcuni istanti, sembrò farmi vacillare. Terminate le abluzioni, il generale si pose in piedi di fronte ad una insegna dalla testa di lupo che, nel frattempo, aveva tirato fuori da un drappo di colore cremisi. Vindice estrasse inoltre un pugnale dalla lama d’oro ed incise una piccola ferita sul braccio destro, dalla quale cominciò a colare un fiotto di sangue vivace. Il generale accostò immediatamente l’arto grondante alle fauci dell’insegna silente, recitando un carme indecifrabile.

Dopo di che, si sedette sulla riva del ruscello e serrò le palpebre, immerso in una immobilità irreale, quasi l’ombra della morte lo avesse ghermito. Improvvisamente, il cielo divenne bronzeo ed innumerevoli aironi bianchi e color del fumo, unitamente a falchi dalle ali d’ambra si levarono in volo, come fossero stati generati da un gemito della Madre Terra.  Mentre ciò avveniva, un grosso lupo dal manto ferrigno si diresse verso di lui, ringhiando minaccioso.

Per nulla intimorito, Vindice gli si avvicinò e cominciò a carezzarlo sul capo, porgendo all’animale le labbra della ferita ancora aperta.

Il lupo, con fare mansueto, accostò le fauci al braccio del generale, e cominciò a cibarsi del di lui liquido vitale. Dopo alcuni istanti, nel corso dei quali Vindice fu scosso da una sorta di tremore acre, la bestia, ormai sazia, si staccò dal di lui braccio e si diresse verso la foresta nuvolosa. Il generale, pallido come il sudario di un morto, si accasciò al suolo. Sconvolto da ciò che avevo veduto, pensai per un attimo di correre in suo aiuto, quando improvvisamente egli saltò in piedi con sorprendente agilità. Nel suo aspetto notai qualcosa di diverso e terribile. I suoi occhi ruggivano e la sua statura sembrava essere divenuta gigantesca, mentre la ferita sul braccio era scomparsa senza lasciare traccia alcuna.

Vindice strappò l’insegna dal terreno per riporla nel drappo vermiglio e balzò in groppa al suo destriero, spronandolo al galoppo verso il nostro accampamento. Sgomento per quanto avevo veduto, tornai immediatamente alla mia centuria ed attesi gli ordini per l’imminente scontro campale. Fu quello il giorno più glorioso della mia esistenza. Il nostro generale fu il primo a scendere sul campo e l’ultimo ad abbandonarlo, dando prova di indomito coraggio. E quando i barbari sembrarono prendere il sopravvento sulle nostre truppe, egli si lanciò nella mischia, incurante dei dardi avversari che saettavano e delle lance che si ergevano come un muro di rovi acuminati contro la nostra cavalleria. «Triumpe, Triumpe, Triumpe, in nomine Mavortis Patris!!», urlava, affondando le lame di due daghe nella gola del Condottiero barbaro. Ammirati da sì grande ardimento, gli uomini si lanciarono contro i nemici con rinnovato vigore ed al grido di Mars Pater adiuva, sfondarono il di loro muro di scudi, ingaggiando un violentissimo corpo a corpo. La vittoria alla fine fu nostra e, come ricompensa, Vindice ottenne di tornare immediatamente a Roma. «Come vedi, Julianus, per i miei servigi nulla domandai all’Imperatore, se non di servire in questo tempio come sacerdote. Da lungo tempo ti attendevo e tu sei finalmente giunto». Disorientato dalle sue parole, così parlai: «Generale, sono solo venuto ad offrire le mie armille e la corona vallare che voi stesso mi consegnaste, a Marte. Compiuti i miei voti, tornerò dalla mia famiglia». Il generale sorrise:« Puoi tentare di fuggire al tuo destino ma ricorda che non andrai lontano. Di certo tornerai dai tuoi cari, ma il Padre nostro tracciò, molto tempo addietro, il tuo cammino con la sua spada insanguinata». Tali parole, pronunciate con un ghigno laconico e beffardo, mi turbarono profondamente. Ed allora compresi… Avevo tentato di gabbare la sorte, abbandonando il mestiere della armi, ma il Nume mi aveva parlato molti anni addietro ed io finalmente capii che mi aveva scelto per scopi a me ignoti; scopi che, intuì, presto mi sarebbero stati rivelati. Senza dire nulla, il generale mi invitò a seguirlo ed io, come fossi stato rapito da un incantamento, feci ciò che comandava. Giunti in prossimità dell’imponente piedistallo del simulacro marziale, Vindice infilò una mano fra le fauci di uno dei lupi di bronzo. Udì uno scricchiolio secco ed una porta si aprì ai piedi del Nume.

Percorremmo un lungo corridoio illuminato da torce, mentre la porta di marmo posticcio si richiuse pesantemente alla nostre spalle. Una scalinata umida scendeva in profondità nel terreno e noi la percorremmo, fino ad arrivare in un ampia sala il cui soffitto era sorretto da candide colonne craniformi. Il fondo della sala ospitava un’ara di granito, priva di qualunque ornamento. Sull’artare spoglio ardeva un fuoco vivace, i cui riflessi purpurei parevano disegnare le sagome di guerrieri armati di spada e lancia, intenti a danzare freneticamente. Un gruppo di sacerdoti con indosso corazze di bronzo e dal capo ornato di elmi splendenti sormontati dai neri pennacchi, ci accolse nella penombra. Vindice prese posto al centro dell’altare, vestendo anch’egli rapidamente corazza ed elmo. Poi, mi invitò a prendere posto di fronte a lui, mentre gli altri sacerdoti mi circondarono, cominciando ad intonare un carme misterioso, che produsse in me un senso di gradevole stordimento. Mentre ciò accadeva, il generale estrasse un pugnale d’oro ed incise sul mio braccio uno strano simbolo.

Il sangue scaturente dalla ferita fu prontamente raccolto in un calice di pietra lavica, il cui contenuto fu versato dallo stesso Vindice fra le fiamme del fuoco. Immediatamente, l’ampia sala fu scossa da un violentissimo tremito. Mentre io tentavo disperatamente di mantenermi in equilibrio, i sacerdoti attorno continuavano incuranti a pregare, restando in piedi come statue di acciaio. Improvvisamente, una calma irreale avvolse il tutto. Vindice si avvicinò a me e mi abbracciò: «Sei stato forte e non hai ceduto alla paura. Benvenuto tra noi. Da oggi, fino a quando la tua anima non abbandonerà il suo albergo terreno per ascendere agli Elisi, la tua vita apparterrà al Nume. Sii degno dei suoi favori. Sii degno di coloro che ti circondano i quali, da oggi, saranno i tuoi unici fratelli; la tua unica famiglia. Vai ora.

Ti è concesso di rivedere ancora una volta tua moglie e tuo figlio, ai quali dirai addio. Non temere. Essi impareranno ad accettare col tempo la tua scelta e, quando essi saranno divenuti polvere sospinta dal vento, la tua spada sarà ancora al servizio del Padre nostro, per la giustizia e la vendetta. Vai ora e spogliati del tuo passato, come di una toga sdrucita». Così parlò il Nume per bocca del mio Generale ed io accettai il mio destino, divenendo da quel giorno sacerdote e sodale della sacra Confraternita di Marte Ultore, offrendo in olocausto la mia vita e la mia morte. Triumpe, Triumpe, Triumpe!

JULIANUS

Fraternitatis Mavortis Ultoris

(Tratto da ereticamente.net che ringraziamo per la gentile collaborazione)

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