IL SILENZIOSO REGNO DI QUILMES

Misteriose e impenetrabili geometrie, simboli e miti, enigmatiche realtà poste fuori dal tempo e custodi di segreti che attendono ancora di essere disvelati. E’ giunto il momento di andare. Mettiamoci in cammino dunque, e lanciamoci alla ricerca di quei luoghi leggendari e silenziosi presenti sulla Terra, che hanno visto nascere e morire civiltà straordinarie ora scomparse. Dispersi tra le spirali di un passato lontanissimo e quasi dimenticato si trovano i frammenti di antiche vestigia: Quilmes, l’antica città perduta degli indios Calchaquì è uno di questi. I Calchaquì erano un popolo guerriero sopravvissuto sia alla dominazione degli Inca che a quella degli Spagnoli, opponendo una fiera resistenza durata fino al loro annientamento. Il regno degli Indios si snoda tra valli incise da profondi Canyon, altipiani polverosi e grandi cactus dalle forme emblematiche. Oggi, solo gli imponenti resti, muti testimoni di quell’epoca, sono sopravissuti. Rovine misteriose che un tempo furono città ricche e prosperose. Arroccata tra i monti, Quilmes dominava tutta la vallata. 

Nel corso dei millenni, per quelle strade sono transitati numerosi popoli, compresi gli Inca e gli Spagnoli. La via sterrata prosegue tra Canyon spettacolari dalle sagome fantasmagoriche. Fra questi i più suggestivi sono la Quebrada de Las Flechas e la Quebrada de Las Conchas. Qui, la furia degli elementi ha disegnato forme bizzarre, scolpendo le grandi rocce  alle quali sono stati dati nomi pittoreschi come Los Castillos, El Obelisco, El Fraile (un monolito eroso edificato a scopi rituali), El Anfiteatro, Garcanta del Diablo. I picchi di pietra, riarsi dal Sole, si stagliano su un cielo terso e luminoso, mentre ruscelli limpidi come lastre di cristallo scorrono tra sentieri color ocra. Chi erano realmente i Calchaquì? Un primo indizio lo ritroviamo nel piccolo museo archeologico di Cachi, nei pressi di Quilmes, dove sono conservati resti umani che recano i segni ben visibili di probabili e ardite operazioni al cranio. I teschi, infatti, presentano dei piccoli tasselli che sono stati incisi con strumenti di grande precisione, forse per scopi rituali e religiosi oppure per guarire l’ammalato. Ciò conferma le conoscenze scientifiche e l’abilità tecnica di questo popolo. Altri reperti di una certa importanza sono gli oggetti d’oro. Tra questi un diadema, un gioiello composto da due piume che terminano con una testa di serpente, lamine d’oro finemente lavorate, cinture e altri monili in argento, rame, bronzo e pietre dure. E ancora, statue votive, punte di freccia, armi e strumenti musicali. La musica giocava un ruolo determinante nell’ambito delle pratiche cultuali. Da qui la creazione di particolari strumenti quali il tarka, uno zufolo con sei fori, il pincollo, un flauto di origine Inca, le zampon’as e i sicus, flauti di Pan di diversa lunghezza con un diverso numero di canne e il bomboun grande tamburo dal suono grave. Questi venivano usati nel corso dei riti di fertilità e di ringraziamento alle divinità Pachamana, denominati Cauzolor e Talatur, accompagnati anche da numerosi canti e danze. Oltre ai Calchaquì, immediatamente a sud del deserto di Atacama e della Puna argentina vivevano i Daguita la cui cultura, meno legata alla tradizione Andina, era diffusa su un vastissimo territorio. Una cultura che in seguito si sarebbe frazionata in una serie di culture regionali differenziate tra loro. Esistevano infatti una cultura diaguita cilena e un argentina. E, all’interno di quest’ultima, varie etnie locali. Tra queste la più nota è proprio quella dei Calchaquì, che erano stanziati nelle valli di Santa Maria e Yocauil (province argentine di Salta, Tucuman e Catamarca). Intorno al 900 d.C., la civiltà dei Calchaquì sostituisce gradualmente quella degli Aguada. La lingua parlata dagli Indios Calchaquì era il Cacàn e i loro insediamenti erano composti da tre tipologie ben distinte: i Pueblos Viejos, una sorta di villaggi agricoli senza mura difensive, composti di case edificate con pietre sovrapposte in modo irregolare. I tetti, invece, venivano fabbricati con pali di legno su cui poggiava una copertura di foglie, fango e pietre. Vi erano poi i Picara, piccoli forti edificati in luoghi strategici, all’entrata o all’uscita delle valli e custoditi da guarnigioni permanenti consistenti in una fila di pareti difensive alte quanto un uomo, che risalivano i versanti dei monti.  Nelle pareti erano collocati ad una certa distanza bastioni con feritoie. All’interno delle mura si trovavano gli edifici che ospitavano la guarnigione, provvisti di cisterne e pozzi. Il terzo tipo di insediamenti rappresentati da città fortificate, composte da case e granai, erano circondati da basse mura protettive esterne.  La bellicosità e il coraggio di questo popolo si manifestavano nel corso delle guerre tra comunità vicine e ne ebbero prova anche gli Spagnoli, che dovettero fronteggiare un nemico unito contro l’avversario comune. Chiusi nelle loro mura, i Calchaquì operavano un tipo di guerriglia che sfruttava la velocità e la capacità di ritirarsi in fretta, rendendo micidiali le loro fionde e i loro sassi. Erano così veloci che attorno ad essi sono sorte delle leggende ammantate da un alone di mistero e di magia. In effetti, i guerrieri del vento (così venivano soprannominati), possedevano qualcosa che trascendeva l’umano e sembrava renderli invincibili. Si comprende così perché fossero ritenuti incarnazioni divine. Del resto, le possibili operazioni rituali effettuate sul cranio sembravano alludere ad un corpus religioso estremamente complesso, che incorporava in sé credenze e riti intimamente connessi con particolari figure divine.  Il mistero che avvolge il popolo dei Calchaquì permane tuttora, ma è presumibile che la simbologia racchiusa nel loro complesso religo-sacrale fosse influenzata in parte dalla civiltà Tolteca. In tale contesto anche le armi sottostavano ad un aspetto simbolico; le fionde, per esempio, godevano dell’egida del dio della Stella del Mattino e alcuni indumenti da combattimento rientravano nella protezione del dio del Fuoco. Queste divinità, di origine Tolteca, potevano benissimo essere state assimilate dagli Indios. Persino il culto solare, che rientra sempre nelle pratiche cultuali Tolteche, pare essere presente nella cultura Calchaquì. Tuttavia l’aspetto più interessante riguarda la figura dello Sciamano e le pratiche funerarie cui il Medicine Man presiedeva. Il tipo di sepoltura che seguiva al rito funebre, infatti, sembra attestare la presenza di un Gran sacerdote, capace di entrare in contatto con gli spiriti tutelari. Le urne funerarie di Santa Maria hanno portato alla luce l’usanza di seppellire i bambini entro contenitori di terra cotta. Tale pratica è antichissima ed era molto diffusa presso le culture delle Ande Meridionali. Le prime testimonianze provengono dalla cultura Cienega della Valle di Hualfin (Catamarca). Gli adulti, invece, venivano sepolti in fosse cilindriche sotto il pavimento delle abitazioni. I bambini erano in urne decorate con incisioni geometriche di ordine simbolico o con motivi dipinti, tra cui è caratteristica la rappresentazione del felino che ci riporta alla mente il mito del dio Giaguaro. La configurazione del felino è riconducibile anche ai leggendari uomini con attributi di belve feroci, ritrovati nel complesso sacro di Cerro Sechin. Questi sono rappresentati ornati da un copricapo trapezoidale con un abbondante piumaggio e indossano un perizoma. Nella mano recano uno scettro o una mazza. La loro presenza nel sito fa supporre che in quel luogo si svolgessero riti magici e arcani, legati anche alle leggende associate alla metamorfosi animale da parte degli Sciamani. Tutte le fasi della ceramica Calchaquì comprendono grandi urne policrome, interrate in vasti cimiteri situati fuori dai villaggi e destinati ad ospitare le sepolture dei bambini. Queste sepolture erano in stretta analogia con i riti di ordine magico (officiati dallo Sciamano) e di fertilità, volti a invocare la pioggia. E’ interessante notare a tale proposito, che i fanciulli venivano inumati in apposite necropoli. Le urne di Santa Maria, in cui la ceramica Calchaquì raggiunge la sua massima espressione, sono alte in media 60 cm. ed hanno una piccola base piana e corpo ovoidale ai cui lati  sono applicati due manici. Il tutto sormontato da un lungo collo cilindrico, svasato in prossimità dell’orlo. La struttura religiosa e rituale connessa con gli Sciamani Calchaquì si sposa perfettamente con l’attuale cultura magica Andina, che risente fortemente delle radici cultuali che componevano il tessuto religioso degli Indios. In tal senso, nel panorama della cultura Andina esiste un concetto estremamente importante legato all’azione della Natura animata, connesso con tutti i fenomeni materiali che manifestano la presenza e la conseguente azione di una controparte spirituale. Si tratta di quella forza che gli Andini chiamano Pacha-Kamaq, l’energia universale nella quale le manifestazioni visibili e invisibili si formano ravvivando qualunque forma di vita. Tale forza è concepita come una forma di coscienza non-umana e non-sensoriale, una sorta di entità intelligente con la quale lo Sciamano può stabilire un contatto diretto e funzionale; diretto, perché per mezzo di sostanze psicotrope, o mediante altre tecniche, accede alla visione dello spirito tutelare finalizzata all’unione con la divinità, allo scopo di pervenire alla conoscenza delle cause di una malattia, oppure con l’intento di ottenere la protezione e la difesa dai nemici visibili e invisibili. Nel complesso di tali pratiche assume particolare valore il significato di encanto andino, espressione che racchiude un aspetto mitico paragonabile alla figura delle fate nella cultura celtica o delle ninfe in quella dei Greci. L’encanto è una forma di intelligenza non-umana, come abbiamo constatato in precedenza, è il dio dei monti, lo spirito di un antenato, il genius loci. Così gli elementi che nella nostra cultura sono considerati inanimati, nel contesto della medicina tradizionale Andina rivestono invece un ruolo centrale e preminente. Le cime delle montagne, le distese di neve, le rocce, le pietre, i fiumi e le lagune, le caverne, l’arcobaleno e il tuono, la notte e l’alba, le antiche rovine (luoghi di potere) e gli oggetti archeologici sono parte integrante dello sciamanesimo, come pure i fenomeni cosiddetti naturali, quali certe forme determinate dall’erosione atmosferica e dei fiumi, la trasparenza dei cristalli (quarzi), le venature presenti nella terra e in alcune pietre, le striature e le inclusioni determinate dalla presenza dei minerali (sempre nelle pietre), l’influenza degli astri e di alcune costellazioni. Nel Medioevo tale concezione era definita come Segnature rerum ovvero, segnali, tracce, impronte dello spirito nelle cose materiali. Altro elemento sinergico che unisce gli odierni Sciamani con i Sciamani che operavano all’interno della civiltà Calchaquì è l’estasi, strumento primario da questi utilizzato per accedere alle dimensioni spirituali e conosciuto con il nome di allocoscienza (stato d’alterazione della coscienza). Non a caso, la parola sciamanesimo proviene dal tunguso saman, che significa colui che è in estasi; un’estasi che conduce lo Sciamano oltre i confini del tempo e dello spazio, nelle regioni spirituali dove arde la fiamma dello spirito. Dove dimora il Logos Divino. Come abbiamo accennato i corpi celesti e le costellazioni rientravano in quell’ambito preternaturale insito nella concezione magica Andina, e proprio le costellazioni con il tempo saranno al centro di un sistema simbolico e astronomico rilevante, utilizzato dalle culture mesoamericane.

Categoria: