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NON CI RESTA CHE PIANGERE… di Alfenor

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Dagli iniziati della Grande Opera alle inezie della grande operetta

La ricerca della verità rappresentò un’esigenza di fondamentale importanza per i popoli dell’antichità ed in particolare per i Greci, i quali impiegarono il termine άλήθεια per indicare il non nascondimento, o meglio l’eradicamento dell'oscuramento. Il filosofo Socrate interpretò l’indagine della verità come atto concreto dell’anima e tale dovrebbe essere ancora oggi per coloro i quali, respingendo la dittatura del relativismo materialista, avvertono nel profondo il desiderio di investigare le ancestrali dinamiche che reggono il Creato.

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Dell’Amore che Risana Interioris Sacrificii di Stefano Mayorca

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Amore, parola svuotata dall’autentico significato che anticamente sanciva il contatto con le “forze di Luce”, con il “tempo altro” che rivestiva il volto Ieratico del Sapere. Lontano da forme mistiche, profane o ancora peggio religiose e incatenanti l’anima in una prigione di ipocrisia e sensi di colpa. Amore senza pretese, disinteressato, distaccato, ma non sterile. Il “sentimento” di cui stiamo parlando, in realtà, è uno stato d’essere attivo, Fuoco interno e magnetico che spande un’ “aura” di forza che penetra senza invadere, dolcemente, profondamente. Questa idealità, che induce l’uomo evoluto a donare una parte di sé e lo slancio che l’accompagna, sono da porre in relazione con il “sacrificio iniziatico” che rinveniamo anche in ambito cavalleresco. Il cavaliere-iniziato rinuncia alla vita profana e dedica la sua esistenza all’alto ideale di “luce” a cui si è legato. In tale contesto si colloca il sacrificio compiuto dagli iniziati, i quali, in maniera analoga, sacrificano la personalità umana e terrigena a favore di quella celata che gli consentirà di fare emergere l’Uomo storico e di divenire in tal modo dei “risvegliati”. Di qui la Rinascita che nella morte simbolica trova il suo culmine. Analogie in tal senso le rinveniamo nella XII Lama dei Tarocchi, l’Appeso, che appare sospeso al centro di due alberi (le colonne del Tempio, Jakin e Bohas).

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L’ultimo Occultista - Riflessioni su Luigi Petriccione/Caliel, di Pier Luca Pierini R.

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In inverno riceveva abitualmente il sabato e la domenica nella “sala d’armi”, un suggestivo salone rettangolare traboccante di armi d’ogni genere ed epoca, posto al primo piano della sua vecchia villa di Nozzano, un tranquillo paesino di campagna nei pressi di Lucca. Quando ci incontravamo, lui stava seduto su una sedia imponente in legno scuro intarsiato, che ricordava vagamente un trono. E noi tutti intorno – non meno di una decina ogni volta – distribuiti tra savonarole, poltrone e altre sedie recuperate nel resto della casa. In estate invece gli incontri si spostavano in un piccolo e fresco studiolo al pianterreno, adiacente il giardino, arredato con mobili in stile rinascimentale infarciti di libri e sempre gremito di attenti ospiti, riuniti ad ascoltarlo in quei lunghi pomeriggi incantati, sospesi nel tempo grazie al fascino di un’autorevole competenza e di una collaudata eloquenza, che lasciavano addosso il profumo di incenso e di mistero. Durante quelle memorabili e dottissime “lezioni” di scienze occulte – sempre assolutamente gratuite – che sfociavano spesso in interessanti discussioni su altri argomenti correlati, si infrangeva il sottile diaframma che divide la dimensione fiabesca dell’invisibile e dell’arcano dal mondo visibile del quotidiano, e la magia sembrava prendere forma, per divenire tangibile realtà.
Molti certamente conoscono, o credono di conoscere, attraverso varie pubblicazioni, traduzioni e sommari riferimenti in Internet, il nome e la storia di Luigi Petriccione, nato a Napoli nel 1928 e scomparso a Nozzano Vecchio (Lucca) nel 1995. Penso però che in pochi, pochissimi, ne abbiano potuto conoscere e forse apprezzare la complessa, profonda e autentica personalità.

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Una terza via per interpretare la stregoneria di Francesco Perricelli

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Frida Kahlo, Abrazo Amoroso, 1949

L’interpretazione della stregoneria, indissolubilmente legata a quella dell’inquisizione, ha spesso trovato un limite nella parentesi temporale all’interno della quale la si è voluta iscrivere. Dal Canon Episcopi composto intorno al IX secolo alle teorie confutatorie del  XVIII, si è cercato sempre di descrivere una parabola ascendente e discendente di un fenomeno sociale e antropologico che ha portato all’adozione di un paradigma, quello di Mircea Eliade, divenuto forse troppo autorevole per suggerire ipotesi più coraggiose. La tesi di Eliade1, essenzialmente, propone un’interpretazione squisitamente antropologica della stregoneria, suggerendo l’esistenza di un’inclinazione, soprattutto nella popolazione meno colta e per nulla imbevuta della teologia cristiana, di una forma di sacerdozio naturalistico, a tratti animista e certamente immanentista, più immediato e strettamente connesso a forme di medicina e farmacopea certamente più accessibili di quelle “accademiche”. In altri termini, la stregoneria sarebbe stata un’esigenza dell’uomo che in qualsiasi epoca, con nozioni, riti e pratiche diverse seppur analoghe, potrebbe riemergere e manifestarsi. La fortuna di questa ipotesi è data dal fatto che qualsiasi tentativo di riconnettere i culti delle streghe a quelli più antichi delle religioni classiche e misteriche si inserisce nella categoria della verosimiglianza senza però riuscire ad assurgere a “verità storico-accademica” a causa dell’immenso patrimonio perduto, bruciato e distrutto. Lo sa molto bene Margaret Murray2 che in due sue successive monografie ha tentato di dimostrare, attraverso una attenta disamina delle poche testimonianze rimasteci e formulando ipotesi coraggiose e in controtendenza, la continuità tra quella che ha giustamente definito “Antica Religione” e la stregoneria medioevale, non soltanto in relazione alle pratiche, talvolta modificate a causa delle costanti persecuzioni e interferenze culturali cristiane, ma soprattutto per ciò che riguarda il senso, la visione del mondo e il desiderio di liberazione e di destrutturazione. L’ipotesi della Murray ha incontrato notevoli ostacoli e molti sono stati gli attacchi nei suoi confronti.

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Introduzione all’Opera LA CHIAVE DELLA SAPIENZA ERMETICA

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SECONDO GIULIANO KREMMERZ, DOMENICO BOCCHINI E GIUSTINIANO LEBANO, di elysius

Nell’arte di interpretare le voci arcane, detta ermeneutica, venivano addottrinati i soli figli di Ermete, ossia del segreto del Mercurio Trimegisto. Mer-Curio, il Mero, ossia il puro delle Curie. Tri-megister: nove volte maestro. Quindi nell’ermeneutica si rinviene l’arcano riferibile del trattato. Dice il Maestro Kremmerz: «I misteri si trovano nelle parole sacre come le rose negli spineti e per capire, investigare, penetrare il senso occulto delle parole non occorre solo un patrimonio di filologia volgare ma una certa dose di sale della sapienza ermetica che dà il senso classico dei parlari sacerdotali antichi. Studiare le parole che appartennero alle religioni morte, è un bene per chi vi riesce anche a metà. Non bisogna illudersi che oggi si conosca più che gli antichi conoscessero, poiché gli antichi nella scienza dell’anima umana furono  profondi e sapienti come la scienza delle università moderne non lo sarà per altri secoli. Integrarsi è capire la forza e la virtualità dell’anima propria e della conoscenza soggettiva, il velo delle religioni simboliche è sollevato. E vi si scoprono tesori che passano inosservati come mucchi di cenci buoni a nient’altro che infiorare la poesia dei rari evocatori della età in ruina. Nessuno potrebbe comprendere la filologia sacra se prima non si è addottrinato nella pratica dei poteri divini, nell’Olimpo ermetico» . E, il Maestro Giustiniano Lebano: «Erano tre i parlari nel vetusto. Demotico, era il primo, ossia grammaticale, con cui parlava tutto il popolo; il secondo Hieratico appellato, oppur giocondo, ossia vatidico o poetico, o teologico, o filologico, od olimpico, con cui parlavano i sacerdoti e le caste patrizie, altrimenti olimpiche, non conosciuto dai grammatici e volgari. Il terzo in geroglifici aveva l’augusto, è a sacre impressioni, o figurativi, inconcepibile da chi non era alunno palladio, poiché si interpretavano in ideografie, e non hanno voci. L’ideografia far vari cerchi e carte che i grammatici chiamano cifre e nessi. Fra gentili tre erano i parlari. Due umani, uno divino. I due umani erano: uno in caratteri grammatici corsivi, e l’altro in caratteri grammatici ed anagrammatici, che si dicevano orfici, cioè privi di luce grammaticale, e si dicevano strofe, ossia in vertigini, che i maestri latini dicevano in versi».

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